sabato 28 aprile 2012

Noventa e la visione sul fascismo che imbarazza i cattocomunisti

di Piero Angelo Vassallo

Nello scenario italiano, in cui gli scrittori più interessanti (Paolo Mieli dixit) sono emarginati dal severo sistema della concentrazione culturale a sinistra, le verità scomode e imbarazzanti hanno cittadinanza soltanto negli angusti e avari ambiti concessi alla sfida degli editori impavidi e al raro gusto dei lettori ribelli.

Se non che i divieti del potere inquisitorio, mentre disturbano o addirittura tormentano gli oppositori, non impediscono la circolazione della impertinente e irriducibile verità: lo si evince dal risultato dei duri colpi inferti alla credibilità sovietica da autori ridotti a vivere nella sospettata e sorvegliata marginalità o deportati direttamente nell'arcipelago Gulag. Valentino Cecchetti, sagace docente di letteratura italiana nell'Università della Tuscia e ostinato esploratore delle verità nascoste dall'intolleranza tardo-gramsciana, pubblica, per i tipi infrequentabili del bandito Marco Solfanelli, un saggio sulle sorprendenti aperture al fascismo di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960) un autore fino a ieri incapsulato nell'indeclinabile elenco degli adamantini antifascisti appartenenti all'area cattolica. 
Un denso, urticante capitolo (Giacomo Noventa, Giuseppe De Luca e le culture del fascismo) dell'intrigante saggio di Cecchetti esamina e riassume fedelmente le tesi formulate da Giacomo Noventa in vista di un approfondimento del costruttivo e cordiale dialogo in atto, nella Firenze degli anni Trenta, tra esponenti del cattolicesimo intransigente e interpreti dell'avanguardia fascista. Il dialogo di Noventa con i redattori cattolici della rivista «Frontespizio», allora impegnati nel dialogo, serrato e mai servile, con le culture del fascismo, iniziò nell'aprile del 1938, data della pubblicazione nella rivista «Riforma letteraria» di un articolo in cui si affermava che «una volontà effettiva di primato nazionale deve poggiare sulla consapevolezza, da parte dell'Italia, della relativa miseria dei risultati del suo Risorgimento e sulla necessità di una profonda revisione del processo storico che lo ha determinato». Nel testo di Noventa traspare l'avversione al neoidealismo di Spaventa, Croce e Gentile, che fu la corona filosofica del Risorgimento inteso come mala unità. L'avversione al neo idealismo era uno stato d'animo condiviso, oltre che dai cattolici fiorentini, dai protagonisti della Scuola di mistica fascista fondata da Arnaldo Mussolini e finalizzata alla riabilitazione della metafisica di San Tommaso e della scienza storica di Vico. Cecchetti osserva acutamente che «durante gli anni Trenta Noventa (anche per l'influsso della filosofia del migliore Maritain) si avvicina agli intellettuali cattolico-fascisti, nel tentativo di creare un comune fronte anti-idealistico ed elaborare una cultura, alternativa a quella egemone, che sia basata su un cattolicesimo allo stesso tempo classico e moderno... nel fascismo Noventa riconosce la premessa e l'affermazione di quella filosofia classica e cattolica alla quale aspirava e della quale si fa consapevole portavoce». È evidente che Noventa anticipa il programma dei tradizionalisti, che nel dopoguerra frequenteranno la destra: separare il neoidealismo dall'insorgenza fascista. Noventa proponeva «una nuova cultura italiana, emendata dai suoi errori storici e raccordata alla trionfante rivoluzione fascista». 
Cecchetti, in conclusione, ha aperto una nuova breccia nel muro cattocomunista.

Non sarà facile sigillarla con il silenzio dei media e con i rantoli dell'antifascismo.

http://www.ilgiornale.it/genova/noventa_e_visione_fascismo_che_imbarazza_cattocomunisti/28-04-2012/articolo-id=585402-page=0-comments=1

venerdì 23 marzo 2012

RECENSIONE di Antonio Catalfamo

GIACOMO D’ANGELO: OMAGGIO A NAZIM HIKMET, “CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE”
  
Così scrive Pablo Neruda, in Confesso che ho vissuto, a proposito di una visita in Unione Sovietica: «Nel 1949, appena uscito dall’esilio, fui invitato per la prima volta in Unione Sovietica, in occasione delle celebrazioni del centenario di Puškin. […] Mi trovavo in mezzo a un bosco in cui migliaia di contadini, con vecchi vestiti da festa, ascoltavano le poesie di Puškin. Sentivo tutto palpitare: uomini, foglie, zolle di terra in cui il grano nuovo cominciava a vivere. La natura sembrava formare un’unità vittoriosa con l’uomo». In Urss Neruda incontra il grande poeta turco Nazim Hikmet, che nel Paese dei soviet ha vissuto per lunghi anni in esilio. Ricorda il poeta cileno, Premio Nobel per la letteratura: «Il suo amore per questa terra che lo accolse, è espresso in questa frase sua: “Io credo nel futuro della poesia. Credo perché vivo nel paese in cui la poesia rappresenta l’esigenza più indispensabile dell’anima”».
Neruda descrive anche il lungo martirio a cui è stato sottoposto Hikmet nel suo Paese, la Turchia, in quanto poeta e militante comunista: «Nazim, accusato di voler organizzare un ammutinamento nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell’inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontarono come lo fecero camminare fino all’esaurimento sul ponte della nave, e poi lo misero nelle latrine, dove gli escrementi raggiungevano mezzo metro. Il mio fratello poeta si sentì  venir meno. Il puzzo lo faceva barcollare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte, vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, alla fine a squarciagola. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d’amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. Così trionfò sull’immondizia e sul martirio. Quando mi raccontava queste cose gli dissi: “Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare”».
Nessuno, meglio di Pablo Neruda, potrebbe raccontare chi è stato veramente Nazim Hikmet. E’ stato un comunista, innanzitutto, cioè un uomo che ama il popolo, a partire dal suo. Continua Neruda: «Mi parlava anche dei dolori del suo popolo. I contadini sono  brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare alla prigione, li vedeva dare in cambio di tabacco il tozzo di pane che ricevevano come unica razione. Cominciavano a guardare l’erba del cortile distrattamente. Poi con attenzione, quasi con gola. Un bel giorno si portarono qualche filo d’erba alla bocca. In seguito la strapparono a ciuffi che divoravano in gran fretta. Alla fine mangiavano l’erba a quattro zampe, come cavalli». Ma, andando al di là dei confini geografici, delle distinzioni razziali, Hikmet ha amato tutto il popolo del mondo, inteso in senso classista come proletariato, come insieme di uomini, di donne, di bambini  che sono sfruttati e ridotti alla fame dai padroni di ogni nazione e da quelli che operano a livello ancora più alto: i padroni del pianeta. Ed ha voluto cantare, con parole semplici, questo suo amore, perché tutti potessero capire le sue poesie, a partire dai protagonisti di quello che può essere considerato un unico, grande poema umano, che racchiude tutta la sua opera. Egli stesso ha scritto nella poesia Cantastorie della Rivoluzione: «Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre / credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all’uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro / ma innanzitutto ama l’uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell’animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell’uomo».
Generazioni di lettori hanno potuto apprezzare, a tutte le latitudini del mondo, nei decenni trascorsi, l’intero corpus delle poesie di Hikmet, che ci dà, appunto, l’immagine veritiera del poeta comunista completamente dedito alla causa degli umili, impegnato per tutta la vita nella costruzione di una società socialista, senza distinzioni di classi. Hikmet muore a Mosca, in esilio, nel 1963.
Nel 1960, gli Editori Riuniti hanno pubblicato in Italia, in un elegante cofanetto, due corposi volumi, intitolati rispettivamente Poesie e Teatro, che, in più di 1.300 pagine, propongono ai lettori del nostro Paese l’immensa opera di Nazim Hikmet. Custodisco gelosamente questo cofanetto nella mia biblioteca.
Ma da questa pubblicazione sono passati più di cinquant’anni. Qual è l’immagine che ha oggi di Hikmet il lettore italiano? Quale idea della sua poesia si possono formare i giovani, naturalmente quelli che hanno conservato il gusto di leggere libri?
Una risposta esauriente a queste domande viene da un aureo libretto, pubblicato per i tipi dell’editore Solfanelli, da Giacomo D’Angelo, figura multiforme di giornalista e scrittore. Lo scopo del volumetto, come spiega nell’Introduzione lo stesso autore, «è principalmente quello di denunciare il silenzio critico calato in Italia su Nazin Hikmet, già anticipato anni fa dalla Lussu. Nonostante il favore continuo dei lettori, che con straordinaria assiduità acquistano le tante ristampe delle sue liriche, l’orientamento editoriale è un calcolo di callida pigrizia, limitato alle poesie d’amore che vanno bene comunque specie a San Valentino (il santo delle stragi mafiose e degli innamorati peynetiani) con le vetrine allestite per la circostanza. Sulla quarta di copertina del titolo più esposto e venduto, Poesie d’amore (Oscar Mondadori, Milano 2006) si leggono parole capziose e tanto generiche quanto imbarazzanti». Ma, prosegue D’Angelo, «Hikmet non è l’Ovidio dell’Ars amatoria, né il Catullo di Lesbia, e nemmeno un epigono del Gabriele d’Annunzio alcionico, se mai lo ha letto. Il suo sentimento dell’amore è talmente esteso alle donne amate, ai figli, alla patria, alla Russia (“paese dei miei sogni”), al popolo turco e alla sua lingua, a tutti i popoli della terra, ai suoi ideali di libertà, da non poter essere circoscritto e ridotto a una parola ambiguamente polivalente».
Così Hikmet, al pari di Neruda, da poeta rivoluzionario è divenuto generico poeta d’amore. Purtroppo non si tratta solamente di «callida pigrizia» degli editori, come ben comprende D’Angelo. Tutta l’operazione rientra in quello che è stato definito «revisionismo storico-letterario». Qualcuno, con maggiore precisione, ha parlato di «rovescismo». La storia e la letteratura sono «riscritte» ad uso e consumo del potere e, in buona sostanza, sono falsificate. Non è un caso che la casa editrice che ha ridotto Hikmet a semplice poeta d’amore è la Mondadori, che ha molto a che fare con la famiglia Berlusconi. Intere generazioni di lettori ricevono un’immagine falsata di poeti e scrittori, ma anche degli avvenimenti storici. Siamo in presenza di un fenomeno che ancora non è stato analizzato in tutte le sue implicazioni e in tutti i suoi effetti nefasti. Solo qualche critico di valore, come Vittorio Spinazzola, ha condotto studi approfonditi sul mercato editoriale italiano, sulla sua configurazione attuale, sulle sue “strategie comunicative”, sul suo impatto sul pubblico dei lettori, sulla composizione sociale, sulla differenziazione e distribuzione geografica di quest’ultimo. Ben vengano, dunque, libri di denuncia come quello di Giacomo D’Angelo, che, pur nella loro essenzialità, danno l’input a studi più ampi e approfonditi. Il Nostro traccia, seppur sobriamente, un profilo biografico e critico incentrato sulla figura di Nazim Hikmet.
Ma va oltre. Coglie l’occasione per ricordare (anche qui brevemente, ma efficacemente) due figure di intellettuali che hanno avuto molto a che fare con il grande poeta turco. Si tratta di Velso Mucci e Joyce Lussu. Questi due intellettuali “poliedrici” sono stati volutamente dimenticati, perché anch’essi scomodi. Velso Mucci ha tradotto dal francese ( il “prototesto” a cui hanno attinto i traduttori francesi, naturalmente, era in turco) le poesie di Hikmet, a beneficio del pubblico italiano. Militante comunista, scrittore, poeta, critico d’arte, Mucci è stato sottovalutato in vita e dopo la morte. Nel 1967 la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato L’uomo di Torino, romanzo incompiuto. Nel 1968, presso lo stesso editore, è uscita una ricca antologia delle sue poesie, intitolata Carte in tavola. Però, anche negli anni di massimo fulgore, la critica ha seguito certi orientamenti che, a mio parere, vanno riconsiderati. Natalino Sapegno, nel suo scritto introduttivo al suddetto volume antologico, individua una cifra retorica nella poesia di Velso Mucci che, invece, è limpida, come quella leopardiana. Altri critici autorevoli (in particolare Ottavio Cecchi) riscontrano una «scissura» tra passato e presente, tra denuncia e protesta. A mio avviso, nell’opera di Mucci opera quella «dialettica dei tre presenti» che, secondo Concetto Marchesi, caratterizza il pensiero marxista: il passato serve a capire il presente e l’analisi dei mali del mondo spinge alla lotta per un futuro migliore. Ritengo, inoltre, che andrebbero rivalutati anche i saggi critici di Velso Mucci, raccolti in volume, nel 1977, dagli Editori Riuniti, sotto il titolo comune de L’azione letteraria.
Oggi le grandi case editrici non pubblicano più le opere di Mucci. Ma l’attenzione nei suoi confronti non è cessata del tutto, grazie, soprattutto, all’impegno del nipote, Alberto Alberti, che ha organizzato alcuni convegni e si è dato da fare per la ripubblicazione, con piccoli editori di valore, delle opere del Nostro. E’ in programma, ad esempio, una nuova edizione de L’uomo di Torino.
Infine, Giacomo D’Angelo si occupa di Joyce Lussu, anche lei traduttrice di Hikmet. Partigiana nel corso della Resistenza, poetessa, intellettuale impegnata nei movimenti di lotta a favore dei popoli oppressi, per la pace, a difesa dell’ambiente, della dignità delle donne. Grazie a lei abbiamo conosciuto in Italia non solo Hikmet, ma altri poeti rivoluzionari come Agosthino Neto e Ho Chi Minh. Assieme a lei sarebbe da rivalutare la figura del marito, Emilio Lussu, antifascista, parlamentare, scrittore di valore, purtroppo dimenticato.

Antonio Catalfamo


Giacomo D’Angelo
Cantastorie della rivoluzione
(Nazim Hikmet – Joyce Lussu – Velso Mucci)
Solfanelli editore
Chieti, 2008, pp. 57, euro 7,00.
     

lunedì 12 marzo 2012

RECENSIONE di Simone Gambacorta

Nonostante sia stato pubblicato quattro anni fa, è il caso di segnalare “Cantastorie delle rivoluzione” di Giacomo D’Angelo, un libro su Nâzım Hikmet edito da Solfanelli e tuttora in commercio. Un piccolo, pugnace volume col quale D’Angelo denuncia che la cultura italiana ha sempre emarginato il poeta turco (con silenzi anche molto "importanti", da Montale a Berardinelli), e che l'editoria di casa nostra, rea di una «callida pigrizia», non ha fatto altro che rimarcarne l'immagine di autore di poesie d'amore («Che vanno bene comunque, specie a San Valentino»). Il risultato di questa miscela è che il grande pubblico ha finito per considerare Hikmet come una scatola di cioccolatini, una specie di prodotto di consumo utile per fare regali senza darsi troppi pensieri. In verità Hikmet aveva un concetto dell'amore più ampio e complesso di quanto si creda, un «sentimento (...) talmente esteso» da non poter essere riassunto e liquidato in «una parola ambiguamente polivalente». Non solo gli incantamenti di chi spasima per il proprio Paolo o per la propria Francesca, ma un afflato politico e sociale che urla parole di libertà e di lotta, che ripudia l'oppressione e che nutre sogni di pace e uguaglianza. Il punto è che il delitto è stato compiuto, e per sanare la situazione non bastano alcuni tardivi interventi che tentano di rompere il silenzio e di offrire un'analisi più attenta e veritiera del poeta, come nel caso della rivista «Poesia», che D'Angelo cita per plaudire a un accurato saggio di Barbara La Rosa (con traduzione dal turco di versi inediti). Hikmet è stato un soldato di pace armato della fede nella letteratura e ha pagato sulla pelle il prezzo delle proprie idee, tanto da essere a lungo ospite delle carceri turche. La sua formazione ideologica, la sua opposizione ad Atatürk, il suo amore per la Russia e per Mosca (quel «crogiolo di cultura rivoluzionaria» dove si spense il 3 giugno 1963), gli arresti e le condanne che ha subito, ne fanno una delle figure più rappresentative fra gli intellettuali che seppero leggere e affrontare quel «secolo terribile» che è stato il Novecento. Convinto che la poesia dovesse essere «innanzi tutto utile, utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa, utile all’orecchio» (così in una lettera a Joyce Lussu), è stato «il fondatore della poesia realistica turca che nasce dal realismo socialista e si rivolge alle masse, prediligendo la struttura libera e lo stile discorsivo». Un poeta partigiano, insomma, un combattente che comprese la necessità delle “parole” di rivoluzione e di resistenza già a diciassette anni, quando scoprì la povertà e l’emarginazione dei contadini dell’Anatolia. Fu un "impatto", una vampata di fiamma viva esplosa nell'anima e destinata a ustionare i suoi occhi e il suo cuore, una «presa di coscienza esistenziale» che lo portò a maturare una concezione «antiestetizzante» e «siloniana» della poesia. Questo parallelismo che D'Angelo traccia è giusto e molto bello e c'è da scommettere che sarebbe piaciuto all’autore di “Fontamara” e della “Scuola dei dittatori” non meno che a tanti altri, per esempio il Ken Loach di "Terra e libertà". In questo pamphlet, che è scritto col tono duro e perentorio di chi conosce tanto a fondo un autore da non poterne più di vederlo maltrattato e ridotto a qualcosa di molto diverso da quello che è, D’Angelo si sofferma poi su due figure decisive per le sorti “italiane” di Hikmet, Joyce Lussu e Velso Mucci. È stato grazie a loro e alle loro traduzioni che dalle nostre parti ha trovato accoglienza il nome di un poeta che non solo ha scontato la galera, l'esilio e altre amene umiliazioni, ma che è stato letteralmente preso a sputi in faccia. La cosa risale al 1951, quando un quotidiano turco ne pubblicò in prima pagina la fotografia invitando tutti a sputare sul volto di quel «rinnegato comunista» e «traditore della patria». Il nerudiano "Confieso que he vivido", confesso che ho vissuto, vale pure per il grande Hikmet, che con la sua vita e la sua opera ha consegnato alla storia un lascito di valore universale. Non è certo necessario condividerne le idee per riconoscerne la forza del messaggio e l’autenticità dell’impegno, e tanto meno per amarne il dettato forte e aperto che lo ha portato, fra l’altro, a scrivere una poesia di disarmante e intensissima semplicità, “Forse la mia ultima lettera a Mehmet”, il figlio, che è un inno all’uomo, alla fratellanza, alla solidarietà, alla pietà: «Senti il dolore / del ramo che si secca, / della stella che si spegne, / dell’animale ferito, / ma innanzi tutto senti il dolore dell’uomo».

Simone Gambacorta

http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=453

domenica 11 marzo 2012

IL DIMENTICATO DIALOGO DI GIACOMO NOVENTA CON I PROTAGONISTI DELL'AVANGUARDIA FASCISTA

Nello scenario italiano, in cui gli scrittori più interessanti (Paolo Mieli dixit) sono emarginati dal severo sistema della concentrazione culturale a sinistra, le verità scomode e imbarazzanti hanno cittadinanza soltanto negli angusti e deplorati ambiti concessi alla sfida degli editori impavidi e al raro gusto dei lettori ribelli.
Se non che i divieti del potere inquisitorio, mentre disturbano o addirittura tormentano gli oppositori, non impediscono la circolazione della impertinente e irriducibile verità: lo si evince dal risultato dei duri colpi inferti alla credibilità sovietica da autori ridotti a vivere nella sospettata e sorvegliata marginalità o deportati direttamente nell'arcipelago Gulag.
Valentino Cecchetti, docente di letteratura italiana nell'Università della Tuscia e ostinato esploratore delle verità nascoste dall'intolleranza tardo-gramasciana, pubblica, per i tipi infrequentabili del bandito Marco Solfanelli, un saggio sulle sorprendenti aperture al fascismo di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960) un autore fino a ieri incapsulato nell'indeclinabile elenco degli adamantini antifascisti appartenenti all'area cattolica.
Un denso, urticante capitolo (Giacomo Noventa, Giuseppe De Luca e le culture del fascismo) dell'intrigante saggio di Cecchetti esamina e riassume fedelmente le tesi formulate da Giacomo Noventa in vista di un approfondimento del costruttivo e cordiale dialogo in atto, nella Firenze degli anni Trenta, tra esponenti del cattolicesimo intransigente e interpreti dell'avanguardia fascista.
Il dialogo di Noventa con i redattori cattolici della rivista "Frontespizio", allora impegnati nel dialogo, serrato e mai servile, con le culture del fascismo, iniziò nell'aprile del 1938, data della pubblicazione nella rivista "Riforma letteraria" di un articolo in cui si affermava che "una volontà effettiva di primato nazionale deve poggiare sulla consapevolezza, da parte dell'Italia, della relativa miseria dei risultati del suo Risorgimento e sulla necessità di una profonda revisione del processo storico che lo ha determinato".
Nel testo di Noventa traspare l'avversione al neoidealismo di Spaventa, Croce e Gentile, che fu la corona filosofica del Risorgimento inteso come mala unità.
L'avversione al neo idealismo era uno stato d'animo condiviso, oltre che dai cattolici fiorentini, dai protagonisti della Scuola di mistica fascista fondata da Arnaldo Mussolini e finalizzata alla riabilitazione della metafisica di San Tommaso e della scienza storica di Vico.
Cecchetti osserva acutamente che "durante gli anni Trenta Noventa [anche per l'influsso della filosofia del migliore Maritain] si avvicina agli intellettuali cattolico-fascisti, nel tentativo di creare un comune fronte anti-idealistico ed elaborare una cultura, alternativa a quella egemone, che sia basata su un cattolicesimo allo stesso tempo classico e moderno ... nel fascismo Noventa riconosce la premessa e l'affermazione di quella filosofia classica e cattolica alla quale aspirava e della quale si fa consapevole portavoce".
A puntuale sostegno della sua tesi, Cecchetti cita un testo di Noventa:"Il fascismo, che è iniziato con l'atto di audacia di una minoranza rivoluzionaria, è ormai privo di antagonismi storici: in esso l'Italia si è unificata e il Risorgimento si è concluso. Di questa nuova realtà non può essere interprete l'idealismo e l'Italia ha bisogno di un nuovo pensiero, classico e cattolico".
E' evidente che Noventa anticipa il programma dei tradizionalisti, che nel dopoguerra frequenteranno la destra: separare il neoidealismo dall'insorgenza fascista. Noventa proponeva "una nuova cultura italiana, emendata dai suoi errori storici e raccordata alla trionfante rivoluzione fascista".
La disgraziata ascesa del nazismo, le leggi razziali del 1938 e il disastroso esito della guerra hanno allontanato dalla scena storica la figura del fascismo.
Le disavventure e le tragedie non hanno cancellato tuttavia gli obiettivi della cultura italiana indicati da Noventa nel lontano 1938: la rimozione dell'egemonia neoidealista sul Risorgimento italiano e l'avvio di un movimento di pensiero indirizzato alla rifondazione della cultura nazionale.
L'ingiustificata deviazione democristiana dalla linea anti-idealista tracciata da Noventa ha infatti causato la surrettizia promozione della versione crociana del neoidealismo, strisciante nelle pagine di Antonio Gramsci e rampante nei disastrosi risultati del centrosinistra.
Di qui il male italiano ossia il consolidamento delle divisioni e il continuo aggiornamento dei furori ideologici, che hanno tormentato la storia italiana a partire dal 25 luglio 1943. Una ferita che non si può rimarginare senza il recupero delle ragioni del patriottismo liberato dalla suggestione neohegeliana e para-hegeliana, che ha dominato la breve storia degli anni Trenta.

Piero Vassallo

http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1399:il-dimenticato-dialogo-di-giacomo-noventa-con-i-protagonisti-dellavanguardia-fascista-di-piero-vassallo&catid=52:-a-cura-di-piero-vassallo&Itemid=123

venerdì 6 gennaio 2012

LA FABULA BELLA (recensione di Renzo Montagnoli)

Fu vera gloria?


“Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. “ Questo dice in tono perentorio uno dei bravi di don Rodrigo al pavido Don Abbondio.
La frase è arcinota, tanto che non è stato difficile farla riemergere dal labirinto della mia memoria, anche perché, quando fu letta e commentata a scuola dall’insegnante, mi venne il sospetto che, per quanto il Manzoni fosse andato a risciacquare i panni in Arno, avesse finito per delineare come autentica lingua italiana, e quindi da essere da tutti utilizzata, quel parlare proprio dei toscani che, nel caso specifico, si estrinseca nell’elisione della i davanti alla h del verbo.
In questo senso le comuni riletture de I promessi sposi sono effettuate o con lo scopo di evidenziare l’aspetto linguistico, oppure di privilegiare quello storico, e, meno frequentemente, con accorta equidistanza, entrambi.
Resta il fatto che mai romanzo italiano ebbe una diffusione come questo e che, per quanto non possa essere considerato popolare, chi più chi meno ne ha avuto sentore, se non altro per il fatto della sua obbligatorietà come testo scolastico.
Però, questa vicenda di un amore ostacolato nella sua realizzazione formale, di questo matrimonio tanto desiderato, ma che per qualcuno non si ha da fare, può essere letta anche in chiave sociologica ed è quel che ha fatto Carlo Bordoni con questo libro che, pur nella sua brevità, riesce a svolgere i propositi in modo esauriente e, cosa non da poco, facilmente comprensibile.
Quel che è particolare è rappresentato dall’occasione che ha indotto l’autore a porre mano a questo lavoro, vale a dire la riduzione televisiva del 1990 del regista Salvatore Nocita, frutto quindi di un mezzo, quello televisivo, capace di porgersi con fini didattici, ma che indubbiamente nasconde, per le potenzialità insite nello stesso, i pericoli di un assoggettamento dello spettatore, di un condizionamento della mente che di per sé finisce con il costituire l’oggetto di altre analisi sociologiche.
Di per sé l’opera è stata esaminata prescindendo dalla qualità intrinseca e considerandola alla stregua di un normale romanzo di consumo e astraendo così dal suo rilevante valore, nonché ignorando la corposa documentazione critica che seguì la sua uscita e che continua ancor oggi.
Il risultato di queste scelte, di quest’occhio attento più alle implicazioni sociologiche che al contesto letterario, è sbalorditivo, perché appare un romanzo totalmente nuovo, senza che con questo il giudizio sulla sua valenza venga sminuito, anche se, a ben guardare, risulta, sia pur di poco, ridimensionato.
Quella di Bordoni è una rilettura, insomma, fuori dai canoni e che evidenzia la trascurabile personalità dei due protagonisti principali, Lucia ligia al senso del suo onore femminile, abbastanza scialba, e Renzo, quasi un sempliciotto pronto a inalberarsi di fronte a un ostacolo, ma lesto a rimettere il capo sotto le ali.
Assume invece un rilievo particolare la figura di Gertrude, la monaca di Monza, esistita veramente e non quindi frutto di fantasia, la cui presenza nell’opera manzoniana può sembrare eccessiva in funzione della struttura e della trama della narrazione. Anche in questo caso avevo colto da studente l’anomalia, in un romanzo quasi matematico dall’apparire alla lunga freddo. Che il Manzoni avesse avuto pietà della triste vicenda di questa donna costretta per volere paterno in convento dove si risvegliò poi una passione, normale in altri luoghi, invereconda fra le mura di una casa di Dio? Molto probabilmente non fu così, perché l’autore, nel dare risalto agli aspetti negativi di una donna che in pratica cercò di ribellarsi alla sua condizione, intese invece in tal modo, e in contrapposizione, esaltare la fermezza di propositi di Lucia Mondella, però secondo un concetto di donna vista nei ristretti limiti di una mentalità che la considerava una costola dell’uomo.
Personalmente riconosco meriti al romanzo che tuttavia presenta luci e ombre, e non sempre le prime sono tali da far dimenticare le seconde, ma d’altra parte l’aria paternalistica di cui il testo è impregnato risente della posizione sociale dell’autore, un conservatore pio, pietoso anche, ma non di certo disposto a cambiare l’ordine gerarchico dell’umanità.
Ecco, il Manzoni cattolico, ligio alla conservazione, emerge in modo chiaro e non è difficile ipotizzare che l’uso del testo nelle scuole non fosse solo finalizzato allo studio della lingua italiana, ma costituisse un esempio-monito di ciò che le classi meno privilegiate dell’epoca dovessero aspettarsi, in una invariabilità dello status quo a tutto beneficio di chi deteneva il potere.
Bordoni riesce a cogliere nei personaggi le sfumature generalmente ignorate nella didattica e li rende meno astratti e più veritieri, così come anche alcuni opportuni rilievi circa l’inquadramento del periodo storico nell’opera manzoniana riportano il romanzo a una maggiore aderenza a realtà prima un po’ offuscate dalla fantasia.
Insomma, senza che per questo I promessi sposi diventino un’opera da gettare – e credo che non pochi studenti lo desidererebbero – quel che esce da La fabula bella è una più razionale valutazione di un romanzo dalle indubitabili qualità, ma non il capolavoro assoluto, giudizio che in epoca scolastica ci è stato surrettiziamente imposto.
Il libro di Bordoni è quindi senz’altro da leggere, magari con accanto un’edizione dei Promessi Sposi.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=9418