lunedì 4 maggio 2009

Quale presente mette in gioco l'arte contemporanea? (Arte e Critica n. 101)

Intervista a Marcello Faletra – autore di Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea. Ed. Solfanelli, 2009.
di Francesco Galuzzi (storico dell’arte)


Francesco Galluzzi - Nel tuo libro parli del rapporto fra arte e tempo, anzi nel sottotitolo specifichi che si tratta di un’archeologia dell’arte contemporanea; perché “dissonanze del tempo”?

Marcello Faletra - Con “dissonanze” intendo una determinata circostanza dell’immagine, in cui si coagulano aspetti che difficilmente vengono tradotti nel discorso sull’arte. La dissonanza non è il conflitto in cui uno dice bianco e l’altro nero, piuttosto intendo con questa parola chiave il fatto che pur trovandoci di fronte alla medesima opera non vediamo la stessa cosa. Questo significa in primo luogo che la dissonanza non è l’incomprensione. Circostanza che implica il fatto che due persone non sappiano vicendevolmente quello che dicono. E non è nemmeno il fraintendimento, spesso causato da una terminologia imprecisa. Ma è l’eterogeneità irriducibile delle opere ad un regime di frasi o a un discorso che ne perimetra il significato. E il tempo di un certo presente che si oggettiva nelle opere è una delle condizioni privilegiate dove la dissonanza ha luogo. Perché questo tempo si declina al plurale, e quindi non è assoggettato alla linearità della cronologia. Il saggio prende spunto da questa demarcazione fra cronologia e anacronismo e implicitamente fra monocronia e policronia. Cioè la differenza fra la mera esistenza fattuale delle opere - la loro classificazione in un regime di segni - e la loro affermazione come alterità che inaugura un tempo diverso da quello convenzionale.

FG - Alludi al mercato e al suo potere di stabilire l’ordine del giorno della “contemporaneità”?

MF - Fino a un certo punto. Vi è in effetti una reazione alla logica del mercato, alla moda, all’ufficialità o alla convenzionalità, ma questa reazione non è costitutiva della “dissonanza” di cui parlo. Ciò che ho tentato di indagare si riassume nella domanda: quale presente mettono in gioco le opere? Se paragoniamo cosa intendessero Diderot e Baudelaire per contemporaneità, scopriamo che per il primo essa era legata alla potenza della ragione di far coesistere conoscenza e utilità, mentre per Baudelaire essa era espressione del feticismo della merce, concetto questo che si prolungherà fino ai grandi monumenti pubblici di Cleas Oldenburg, con i suoi Totem, o Rossetti per labbra su trattore cingolato, ecc. Per fare un altro esempio già kandinsky concepiva il presente non più in termini oppositivi – presente vs passato – ma in termini di connessione, di contiguità, e il tratto significativo di questa connessione era rappresentato dalla lettera e. Ma in tutti questi casi ciò che è interessante è il fatto che la contemporaneità è un’invenzione del presente indissociabile dalla volontà con cui lo si immagina. L’uomo moderno per Nietzsche non è colui che va alla scoperta di se stesso, ma colui che inventa se stesso. E questo aspetto non è riducibile ad una mera temporalità cronologica, ma inattuale, intempestiva che sfugge spesso allo sguardo dei “contemporanei”; perchè è come un istante oscuro come lo definì Ernst Bloch.

FG - Come possiamo conoscere questo “istante oscuro”, come tu dici?

MF - Un primo approccio potrebbe essere un attento esame del modo in cui utilizziamo la parola contemporaneo. In che contesto questa parola assume valore. In che modo la significhiamo. Cosa archeologicamente si è inteso e s’intende con questa parola? Per inciso specifico che per archeologia non intendo la tendenza a definire universi di saperi, ma sulla scia di Foucault, solo casi esemplari, particolari che irrompono nel contesto modificandone la fisionomia.

FG – Certo la parola contemporaneo si presta a una infinità di interpretazioni, a volte in conflitto fra loro, ma come avere un approccio estraneo ad un partito preso?

MF - Beh, innanzitutto cercando di capire il ruolo della parola contemporaneo nell’ambito della designazione. Quando diciamo “arte contemporanea” cosa intendiamo dire esattamente? Quando diciamo “questa è arte”, cosa stiamo facendo realmente? E’ chiaro che queste affermazioni fanno ricorso a un referente, a qualcosa che viene designato come arte. L’oggetto designato con il deittico “questa” viene classificato “arte”. Questa operazione risulta indispensabile per individuare quali oggetti o immagini in quel dato momento sono separati dal loro contesto abituale e inseriti in una nuova classificazione. Ora, dal momento che gran parte dell’arte d’oggi si serve di materie, oggetti e immagini già esistenti in altri ambiti che generalmente non sono ritenuti artistici, è evidente che queste non hanno di per sé la capacità di significare. Una sedia di Kosuth o una scopa di Rauschenberg o un giocattolo di Koons di per sé non significano già “arte”. Occorre un passaggio. E questo passaggio ci viene dalla capacità di designare queste cose come oggetti d’arte. Cioè di recuperare il piano cognitivo per comprendere il trasferimento di funzione e di significato. Questa procedura cognitiva esige dunque dei deittici che hanno la funzione di scambiare il significato di una cosa in un’altra. Ora l’espressione “questa è arte”, esplicita o implicita che sia, è proprio uno di questi deittici, come ora, adesso, questo, quella, qui, io, tu, ecc. Questa funzione è importante perché contestualizza lo spettatore nell’ambito di uno spazio-tempo. Non del tempo in cui è localizzata la frase, ma del tempo che l’espressione “questa è arte” segna, e a volte con la sola presenza dell’oggetto, senza il supporto della parola. Nell’ambito di questo problema si possono distinguere designatori rigidi e designatori mobili. I primi sono le date: “l’arte dal 1945 ad oggi”, oppure “l’arte del Novecento”, sono designatori sempre identici che di per sé non stabiliscono e non decidono il significato dell’arte; posto un termine temporale rigido il resto viene inserito all’interno di questa cornice secondo l’appartenenza cronologica. Ma se entriamo all’interno dei processi di significazione vediamo che vi sono designatori mobili o “performativi” come quello che dicevo poco fa e che dipende dall’atto performativo.

FG - E questo è un problema che vale per ogni epoca dell’arte?

MF - No. Perché nel passato l’arte subiva una definizione a priori. Era arte ciò che rientrava entro determinate categorie. Il senso greco della parola arte – techné – era equivalente di abilità. In Omero ha il significato di fabbricare, produrre, costruire. Un fare efficace, adeguato in generale. Platone nel suo Timeo parlerà di technitès (il demiurgo), cio che oggi con un significato molto diverso chiamiamo artigiano. I romani, invece, impiegavano la parola ars, riferita essenzialmente alla qualità. Nel medioevo, nelle prime università, si parlerà di ars al plurale, come arti liberali, perché competono solo a un uomo libero, non soggetto al lavoro. Le arti liberali si chiamano arti perché sono la maniera di far diventare liberi gli esseri umani. Alle arti liberali si oppongono le arti meccaniche (trovare il mezzo per…le macchine sono varianti della leva). E’ soltanto con la società basata sullo scambio mercantile che noi avremo ciò che tutt’ora si chiama “opera”. Un prodotto dell’azione umana. Ma già Balzac osservava che “noi non abbiamo più delle opere, non abbiamo che dei prodotti”. Abilità, qualità, erano condizioni poste dalla trasformazione di una materia in una forma. Ma oggi le cose sono ben diverse. Si potrebbe dire che la materia prima dell’arte sia lo spettacolo. Se questa ipotesi fosse vera, si giustificherebbe il fatto che oggi non conta più saper fare qualcosa, ma saper apparire. Questa è la differenza radicale fra Bill Viola e Jeff Koons. Pur appertenendo alla stessa epoca, tuttavia sono cosi distanti l’uno dall’altro…Il primo cerca di essere “contemporaneo” di un saper fare - l’arte del video - che lo proietta a fianco di un Pontormo o di un Masolino da Panicale. Il secondo invece ratifica la contemporaneità dello spettacolo. Ciò che li divide è dunque la materia dell’arte. Per il primo è la storia, per il secondo è il banale tipico dell’universo disneylandiano.

FG - Da questo punto di vista pensi che ci sia una crisi dell’arte contemporanea?

MF – In un certo senso l’arte è per sua natura sempre espressione di una crisi, se si intende con questa parola un processo che porta da uno stato a un altro. La crisi è l’avventura dell’arte nel senso che è un passaggio al limite dell’immagine. Questo passaggio al limite è il presente puro, non ancora incorniciato nel tempo cronologico. Solo che l’idea di crisi generalmente adottata è quella che ci viene dalla medicina che segna il rapporto fra la vita e la morte. Se per crisi intendiamo quest’ultimo aspetto non credo ad una crisi dell’arte.
Il paradigma medico implica l’idea di fine dell’arte – l’ultimo paragrafo del mio libro parla appunto di “illusione della fine dell’arte”; ma l’idea di crisi se si guarda bene è costitutiva di tutta l’arte della modernità con i suoi continui rivolgimenti, ed è connaturata all’ordine capitalista della nostra società. Prima ancora che con le idee l’arte cambia attraverso le materie che utilizza. Il fatto che molti artisti sono irreggimentati nell’universo del banale non significa che vi sia una crisi dell’arte, come se questa fosse un corpo organico e chiuso. Che nelle manifestazioni artistiche vi si espongono anche delle sciocchezze non significa che vi sia crisi dell’arte, semmai è il sintomo di povertà del curatore o dell’artista…Piuttosto in un universo aleatorio dei valori estetici ciò che è in crisi, nel senso medico, è proprio la definizione dell’arte, condizione questa che già era stata diagnosticata agli inizi degli anni Settanta dal critico americano Harold Rosenberg, parlando di “S-definizione” dell’arte. Dieci anni dopo lo storico dell’arte Hans Belting parlerà di “fine della storia dell’arte”, alludendo alla libertà dell’arte di fronte alle rigide cornici formalistiche e cronologiche.

FG - Nel tuo libro la nozione di presente svolge un ruolo fondamentale; cosa significa costruire un presente nell’arte?

MF – Molte opere del secolo scorso sono interamente coinvolte nel creare un presente. Non alludono a nessuna posterità. Non c’è nulla da aspettare. E dal momento che il presente vive di una certa fragilità occorre affermarlo. La singolarità dell’opera…ma sarebbe più esatta parlare dell’evento, è il suo affermarsi come attualità. Da qualche parte Deleuze ha osservato che l’attuale non è ciò che siamo, ma ciò che diveniamo. E’ in questo divenire che l’arte è un atto di resistenza contro le formule che la riducono a una sterile citazione. Per questo in un certo senso oggi il presente stenta ad affermarsi. Ci sono molti artisti che vanno avanti sulla scorta degli artisti del passato e anche del recente passato. Le avanguardie del Novecento dicevano “noi cominciamo”, mentre molti artisti oggi – non tutti naturalmente - dicono “noi citiamo”. Questo aspetto è ciò che Hans Belting ha chiamato lo “storicismo dell’arte contemporanea”.

FG - Ciò che è in gioco quindi sarebbe il rapporto fra passato e presente e il modo in cui questo rapporto si oggettiva nelle opere?

MF – Anche se esprime la più assoluta individualità, l’arte è pur sempre inscritta in un presente storico, sovracodificato da segni e immagini del passato e dai rumori del presente, ed è impossibile fare a meno di questo aspetto. Quanto presente riusciamo a costruire e quanto ce ne sfugge? Quanto passato lavora sul presente e quanto si è volatilizzato? Il sottotitolo “archeologia del presente”, allude proprio a questo. Come ha ricordato Deleuze in una intervista l’archeologia è sempre al presente. Perchè l’archeologia si situa al margine tra il visibile e l’invisibile. Rende visibile qualcosa, un frammento, un dettaglio significativo, che era stato rimosso o obliato. E’ per questo che essa si coniuga solo al presente. Nietzsche ad esempio rilancia Dioniso e la tragedia greca obliati dall’ideale apollineo. Mallarmé fa del caso non più il disordine ma il molteplice della creazione letteraria…In altre parole la policronia si afferma contro la monocronia. E’ questa l’inattualità di cui parlo nel libro.

FG - In che senso si effettuerebbe questa inattualità in certe opere?

MF - Parto dal presupposto che ogni “opera” – ma oggi possiamo ancora parlare di “opere”? – sia un evento - qualcosa che modifica qualcos’altro: la percezione delle cose. Il problema allora diventa: tutto ciò che vediamo in una manifestazione artistica, in un museo d’arte contemporanea o in qualsiasi altro luogo dove vi si espone dell’“arte”, è davvero un evento? Da questo punto di vista ormai non possiamo non ignorare quanto la parola entertainement sia diventata costitutiva della definizione “culturale” dell’arte. Perché, in effetti, tutto può essere “entertainement”, anche un disastro o un assassinio o un tentativo suicidio, come i suicidi sempre rinviati dell’artista spagnolo Nebreda. E’ in questa logica che vanno lette alcune tra le più clamorose – in quanto ultrapubblicizzate - pseudo trasgressioni dell’arte d’oggi. Detto drasticamente l’arte o c’è o non c’è. Diversamente è intrattenimento culturale e passa allo “stato gassoso” come dice il filosofo francese Yves Michaud, secondo cui l’arte contemporanea si caratterizzerebbe per i “giochi di linguaggio” che la muovono, per una specie di pluralismo estetico generalizzato. Se intendiamo per opera qualsiasi “accadimento” nel mondo aleatorio dell’arte, allora, credo che non ogni “opera” sia un evento. Perché non ogni accadimento - fenomeno artistico - è un evento temporale, ma spesso pubblicitario. Spesso musei, importanti gallerie private, manifestazioni artistiche non sono altro che ratificazioni ufficiali della contemporaneità in funzione del mercato di certi accadimenti artistici. D’altra parte hanno le loro buone ragioni: devono pur vendere qualcosa.

FG - Non mi è molto chiaro. Se ho capito bene a partire dall’evento tu stabilisci una profonda cesura fra arte e non arte. E’ così? Ma è ancora possibile determinare questo confine oggi? Non rischi di assecondare una posizione idealista e modernista dell’arte?

MF - E’ proprio perché oggi è impossibile stabilire cosa debba intendersi per arte che affronto il problema a partire dall’evento. Paradossalmente il concetto di un’arte senza definizione è diventato il punto centrale della proliferazione delle sue definizioni. Ve ne sono tante quante sono le opere. Perché alla fine si ricorre sempre a costrutti linguistici. per definire gruppi di opere. “Posthuman”, “postmoderna”, “postcoloniale”, “postproduction”, New media, ecc.. Al mercato occorre sempre un’identità come equivalente della diversificazione del prodotto. Perché le definizioni in fondo si rivolgono al cliente. Praticamente alle definizioni universalistiche si sono sostituite le definizioni pluralistiche, ma la definizione come tale resta. D’altra parte le definizioni fanno risparmiare lavoro, e questo aspetto come già un secolo fa notò Max Weber, è il tratto burocratico della società capitalistica. Ogni definizione è un atto burocratico. L’atto del definire lavora sotto sotto per l’intero, per una concezione apparentemente pluralistica, ma concretamente, in termini di mercato, organica. Si tratta di capire quale arte si presta alla definizione e quale no. La questione è aperta.

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