lunedì 6 marzo 2017

Conflitto tra città e metropoli – di Alessandra Muntoni

Nel suo libro Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, Chieti 2016, Giancarlo Consonni. discute una questione che potrebbe sembrare inattuale, mentre invece sta al centro del progetto, della gestione e della stessa percezione dello spazio urbano. Definire la bellezza è difficilissimo. Basti pensare al dialogo tra filosofi e artisti raccolto nel volumetto Che cosa sia la bellezza non so, Leonardo, Milano 1991, dove essi s’interrogano tra loro (Lytard-Buren, Givone-Boetti, Zecchi-Paladino, Vattimo-Paolini, Müller-Vitiello-Kounellis, Vitiello-Tatafiore) sul significato della parola, senza venirne a capo.
Qualunque cosa significhi, nel caso dell’urbanistica ha ragione Consonni: il termine è ormai molto lontano dall’operare di urbanisti e architetti, e ancor più da coloro che amministrano o organizzano i propri affari nella città e nella metropoli contemporanea. Egli tenta allora una nuova definizione: la “bellezza d’assieme”, o bellezza civile, connessa a una condivisione del significato e dell’uso della città raccordata al suo territorio, e quindi sinonimo di una civiltà che esprima valori comuni. Contrapposta alla “bellezza del singolo edificio”, spesso per lui sinonimo di autocelebrazione e di ricerca privata, la “bellezza d’assieme” si ricollegherebbe a una tradizione alta: quella che dal Dante Alighieri del Convivio giunge fino a Carlo Cattaneo e a Ildefonso Cerdá.
Nella dismisura della metropoli contrapposta alla misura della città, sostiene Consonni, è ormai tramontato un sistema in equilibrio e la caduta della bellezza è ancor più evidente in ogni paesaggio antropizzato. Tanto più difficile, allora, appare l’introduzione nell’habitat di quell’auspicata “bellezza d’assieme”, visto che la crisi della civiltà ha sconnesso e separato i legami di una sostenibilità sociale.
Come esempio di questa dismisura, Consonni porta il caso della Piazza “Gae Aulenti” a Milano dove, anziché tessere con il contesto relazioni possibili, «ogni organismo edilizio è chiuso in una totale solitudine, incapace com’è di istituire un legame con gli altri edifici e con l’intorno, verso cui si proietta disperatamente in un’esibizione narcisistica». Un giudizio fin troppo severo, visto l’uso quotidiano che ne fanno gli abitanti, ma certo da tenere presente per chi volesse rilanciare un più ampio consenso nella condivisone di valori. Una sfida per l’urbanistica del futuro.

domenica 12 febbraio 2017

Se la bellezza delle città ci interpella (di PAOLO PILERI)


Se la bellezza delle città ci interpella

di PAOLO PILERI   
«La città deve tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile».
casadellacultura, città bene comune, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)



L'ultimo libro di Giancarlo Consonni - Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) - è semplicemente Bello. Proprio così: con la "B" maiuscola. È infatti uno di quei rari saggi che riesce a prendere fiato rispetto al parapiglia di un dibattito urbanistico spesso schiacciato sui temi della rendita e della fiscalità urbana piuttosto che sull'arte di costruire le città, o su quello o quell'altro caso di speculazione, o - come si dice oggi - di sviluppo 'smart'.

Consonni - intrecciando i mille rivoli di una cultura personale che prima di essere urbanistica è umanistica - riesce a vedere con il necessario distacco quel che sta accadendo nel dibattito sulla città e il territorio e soprattutto riesce a farci comprendere bene quanto l'idea stessa di città si sia erosa e modificata nel tempo a furia di maltrattamenti lessicali e manomissioni di senso. Questo al punto che oggi fatichiamo a vedere, a sentire, a immaginare un futuro per quella che è una delle più grandi invenzioni dell'umanità.

Sento per l'autore di questo "libriccino" - così lo definisce lo stesso Consonni nella premessa - un sentimento di vera gratitudine. Ho respirato qualcosa di nuovo leggendo quelle pagine dense di pathos e non solo di logos. In esse ho colto una critica non ideologica a ciò che succede al governo del territorio. Ho visto dove si sono ammalorate le basi del pensiero urbanistico. E ho capito. Perché questo "libriccino" ti apre gli occhi, spostando il tuo sguardo fuori dalla rissa in cui perennemente ci troviamo, per appoggiarlo sulle cose veramente importanti, quelle che fondano (e dovrebbero continuare a fondare) sia l'idea di città sia l'idea di progetto della città.

Non si può che concordare con l'autore sulla necessità di interrompere quella follia che vuole la città e la metropoli come una sola grande occasione di profitto. Questo è terribilmente svilente non solo della bellezza dei luoghi urbani ma anche e soprattutto dell'idea di cittadinanza e dell'idea stessa di città. Idee che nel nostro Bel Paese si sono formate attraverso i secoli divenendo parte del nostro carattere, del nostro pensare e agire quotidiano, del nostro sguardo, persino quando chiudiamo gli occhi.

Il problema - perché esiste effettivamente un problema - è che oggi si sta eccessivamente imponendo, a forza di proclami e false verità, un'idea di città di plastica, tutta costruita attorno alla parola magica "metropolitana". Consonni vi si sofferma, la studia, ci ragiona con maestria e leggerezza e alla fine ne deduce che non possiamo rinunciare alle chiavi basilari di ciò che è veramente la città, ad alcuni suoi caratteri essenziali come quello dell'urbanità e quello della bellezza.

Diversamente ci "sembra" di essere in una città, ma invero siamo in una sorta di set cinematografico alla "Truman Show", in un penoso spettacolo in cui ogni cosa è messa lì per soddisfare le mire di guadagno di alcuni, i soliti che mirano ad accaparrarsi la rendita, quelli della finanza, del fondo immobiliare xy, della catena commerciale zk. E loro - questo è chiaro - hanno più bisogno di consumatori che non di cittadini.

Tra le strade e le piazze di questo tipo di città non sono benvenuti coloro che vogliono semplicemente passeggiare e - consapevolmente o inconsapevolmente - praticare un'esperienza emotiva e sensoriale complessa. Sono ammessi solo clienti a consumazione obbligatoria. E la bellezza allora sbiadisce, ma soprattutto evapora la nostra capacità di coglierla, di essere fieri e consapevoli che questa esiste davvero ed è l'anima delle nostre città, quelle europee ma soprattutto quelle italiane. Finiamo così per infischiarcene: un delitto di cui non possiamo essere complici. «La città - sostiene al contrario Consonni - deve tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile».

Se la nostra identità non si intreccia con l'urbanità - che per Consonni significa bellezza d'insieme, ma anche affabilità, educazione allo stare insieme di architetture e persone e molte altre cose ancora - salta per aria quella convivenza civile fatta di relazioni di prossimità, di desiderio di prendersi cura dei luoghi, di sentimento di cittadinanza. Va cioè in crisi ciò che alla fine fa la città. Dalla capacità di tenuta dei sottili fili che ancora ci annodano a quel che rimane della bellezza d'insieme e dell'urbanità che, nonostante tutto, continua a caratterizzare molti dei nostri tessuti urbani, misureremo il nostro amore per la città.

Consonni non teme di lanciare un appello alle classi dirigenti del Paese, agli architetti e agli urbanisti, invitandoli, responsabilmente, a non spezzare quei fili, già così lisi. In caso contrario, verrebbe definitivamente meno il senso di appartenenza alla città (in quanto idea, luogo e casa) e soprattutto svanirebbe quell'obbligo implicito di legittimarsi attraverso la "bellezza civile". Se ciò accadrà, se si proseguirà sulla strada che da anni abbiamo purtroppo imboccato, «si sbriciolerà - secondo Consonni - uno degli argini che tiene insieme il mondo e ne limita la bruttezza».

Per concludere, questo "libriccino" giallo non è solo bello: è uno slancio poetico (perché è di poesia che abbiamo bisogno per ragionare e vedere al futuro). È cioè qualcosa che ci ricorda con sentimento che «la bellezza è un dono. Una felicità momentanea che, più che appagarci, ci interpella». Allora chiediamoci cosa può fare ognuno di noi per tener vive le tante bellezze delle nostre città e dei nostri paesaggi: di ciò siamo tutti responsabili.

http://www.eddyburg.it/2017/02/se-la-bellezza-delle-citta-ci-interpella.html

venerdì 10 febbraio 2017

SE LA BELLEZZA DELLE CITTÀ CI INTERPELLA Commento al libro di Giancarlo Consonni (Paolo Pileri)

L'ultimo libro di Giancarlo Consonni - Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) - è semplicemente Bello. Proprio così: con la "B" maiuscola. È infatti uno di quei rari saggi che riesce a prendere fiato rispetto al parapiglia di un dibattito urbanistico spesso schiacciato sui temi della rendita e della fiscalità urbana piuttosto che sull'arte di costruire le città, o su quello o quell'altro caso di speculazione, o - come si dice oggi - di sviluppo 'smart'. 
Consonni - intrecciando i mille rivoli di una cultura personale che prima di essere urbanistica è umanistica - riesce a vedere con il necessario distacco quel che sta accadendo nel dibattito sulla città e il territorio e soprattutto riesce a farci comprendere bene quanto l'idea stessa di città si sia erosa e modificata nel tempo a furia di maltrattamenti lessicali e manomissioni di senso. Questo al punto che oggi fatichiamo a vedere, a sentire, a immaginare un futuro per quella che è una delle più grandi invenzioni dell'umanità.
Sento per l'autore di questo "libriccino" - così lo definisce lo stesso Consonni nella premessa - un sentimento di vera gratitudine. Ho respirato qualcosa di nuovo leggendo quelle pagine dense di pathos e non solo di logos. In esse ho colto una critica non ideologica a ciò che succede al governo del territorio. Ho visto dove si sono ammalorate le basi del pensiero urbanistico. E ho capito. Perché questo "libriccino" ti apre gli occhi, spostando il tuo sguardo fuori dalla rissa in cui perennemente ci troviamo, per appoggiarlo sulle cose veramente importanti, quelle che fondano (e dovrebbero continuare a fondare) sia l'idea di città sia l'idea di progetto della città. 
Non si può che concordare con l'autore sulla necessità di interrompere quella follia che vuole la città e la metropoli come una sola grande occasione di profitto. Questo è terribilmente svilente non solo della bellezza dei luoghi urbani ma anche e soprattutto dell'idea di cittadinanza e dell'idea stessa di città. Idee che nel nostro Bel Paese si sono formate attraverso i secoli divenendo parte del nostro carattere, del nostro pensare e agire quotidiano, del nostro sguardo, persino quando chiudiamo gli occhi. 
Il problema - perché esiste effettivamente un problema - è che oggi si sta eccessivamente imponendo, a forza di proclami e false verità, un'idea di città di plastica, tutta costruita attorno alla parola magica "metropolitana". Consonni vi si sofferma, la studia, ci ragiona con maestria e leggerezza e alla fine ne deduce che non possiamo rinunciare alle chiavi basilari di ciò che è veramente la città, ad alcuni suoi caratteri essenziali come quello dell'urbanità e quello della bellezza. Diversamente ci "sembra" di essere in una città, ma invero siamo in una sorta di set cinematografico alla "Truman Show", in un penoso spettacolo in cui ogni cosa è messa lì per soddisfare le mire di guadagno di alcuni, i soliti che mirano ad accaparrarsi la rendita, quelli della finanza, del fondo immobiliare xy, della catena commerciale zk. E loro - questo è chiaro - hanno più bisogno di consumatori che non di cittadini. Tra le strade e le piazze di questo tipo di città non sono benvenuti coloro che vogliono semplicemente passeggiare e - consapevolmente o inconsapevolmente - praticare un'esperienza emotiva e sensoriale complessa. Sono ammessi solo clienti a consumazione obbligatoria. E la bellezza allora sbiadisce, ma soprattutto evapora la nostra capacità di coglierla, di essere fieri e consapevoli che questa esiste davvero ed è l'anima delle nostre città, quelle europee ma soprattutto quelle italiane. Finiamo così per infischiarcene: un delitto di cui non possiamo essere complici. "La città - sostiene al contrario Consonni - deve tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile". 
Se la nostra identità non si intreccia con l'urbanità - che per Consonni significa bellezza d'insieme, ma anche affabilità, educazione allo stare insieme di architetture e persone e molte altre cose ancora - salta per aria quella convivenza civile fatta di relazioni di prossimità, di desiderio di prendersi cura dei luoghi, di sentimento di cittadinanza. Va cioè in crisi ciò che alla fine fa la città. Dalla capacità di tenuta dei sottili fili che ancora ci annodano a quel che rimane della bellezza d'insieme e dell'urbanità che, nonostante tutto, continua a caratterizzare molti dei nostri tessuti urbani, misureremo il nostro amore per la città. Consonni non teme di lanciare un appello alle classi dirigenti del Paese, agli architetti e agli urbanisti, invitandoli, responsabilmente, a non spezzare quei fili, già così lisi. In caso contrario, verrebbe definitivamente meno il senso di appartenenza alla città (in quanto idea, luogo e casa) e soprattutto svanirebbe quell'obbligo implicito di legittimarsi attraverso la "bellezza civile". Se ciò accadrà, se si proseguirà sulla strada che da anni abbiamo purtroppo imboccato, "si sbriciolerà - secondo Consonni - uno degli argini che tiene insieme il mondo e ne limita la bruttezza". 
Per concludere, questo "libriccino" giallo non è solo bello: è uno slancio poetico (perché è di poesia che abbiamo bisogno per ragionare e vedere al futuro). È cioè qualcosa che ci ricorda con sentimento che "la bellezza è un dono. Una felicità momentanea che, più che appagarci, ci interpella". Allora chiediamoci cosa può fare ognuno di noi per tener vive le tante bellezze delle nostre città e dei nostri paesaggi: di ciò siamo tutti responsabili.

di Paolo Pileri



mercoledì 11 gennaio 2017

Novità: MEDITAZIONI SU UNA CIVILTA' FERITA di Sandro Marano

     Il filo conduttore di questa raccolta di articoli e piccoli saggi di Sandro Marano è quello di una critica alla civiltà moderna condotta dal particolare punto di vista della poesia e dell’ecologia. I poeti, gli scrittori, i filosofi, gli artisti, gli uomini politici passati in rassegna dall’autore ci invitano alla meditazione, al raccoglimento, ad un pensiero forte al di fuori degli schemi pregiudiziali e del “politicamente corretto”.
     Il tutto nel breve, nel conciso, nella leggerezza. Fatti quotidiani, citazioni, domande, interpretazioni storico-critiche si amalgamano e si susseguono nel tentativo di capire il tempo che stiamo vivendo, di riflettere sul mistero della vita, di sentirci in fondo meno soli.
     Lo scrittore allora è un po’ come “il cane della scrittura”, cui si riferiva in un suo magnifico racconto Pierre Drieu La Rochelle: al pari del cane che cerca gli avanzi per nutrirsi e sopravvivere, egli segue le tracce e le mette insieme, fuori di metafora, si volge alla scrittura per superare o cercare di superare la disarmonia del vivere, le contraddizioni, l’assurdo.


Sandro Marano
MEDITAZIONI SU UNA CIVILTA' FERITA
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-675-1]
Pagg. 128 - € 11,00

http://www.edizionisolfanelli.it/meditazionisuunacivilta.htm

giovedì 29 settembre 2016

Novità: URBANITÀ E BELLEZZA di Giancarlo Consonni

     La bellezza dei paesaggi e la bellezza delle città sono state tutt’uno con l’agri coltura e l’urbis coltura, pratiche volte a rendere abitabile il mondo. All’origine dell’urbanità e della bellezza civile c’è una generosità interessata: la contropartita, per chi le promuove e vi partecipa, è l’elevamento della qualità dell’esistenza propria e degli altri. Dove il bello, prima di essere un risultato, è un elemento motore. Se l’urbanità è illuminata dalla bellezza, senza l’urbanità la bellezza civile è impossibile.
     Nell’arte di costruire città l’Italia è stata maestra della bellezza d’assieme. Ha inventato l’armonia complessa derivante dall’interazione dialogica degli organismi edilizi; una modalità compositiva governata dalla tensione che infonde qualità teatrale agli spazi aperti pubblici, così da fare della stessa ‘scena’ la rappresentazione del convivere. Oggi il Bel Paese sembra aver dimenticato quest’arte, per divenire terreno di incursione di esibizionismi devastanti che allontano l’ambiente costruito dall’urbanità.
     Il libro entra nel vivo della crisi indicando qualche via d’uscita.


Giancarlo Consonni
URBANITÀ E BELLEZZA
Una crisi di civiltà
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-983-7]
Pagg. 72 - € 8,00

http://www.edizionisolfanelli.it/urbanitaebellezza.htm

martedì 10 novembre 2015

Novità: IL FERMENTO E NON di Sandro de Nobile

     Come in un esperimento scientifico, in questo saggio de Nobile mette la cultura abruzzese del secondo dopoguerra a reagire con il principale fermento artistico dell’epoca, il Neorealismo.
     Per cultura abruzzese s’intende in particolare quella rappresentata dalle riviste letterarie, la cui centralità nelle dinamiche intellettuali è ormai acclarata, riviste che, dal punto di vista geografico, coprono pressoché interamente il territorio regionale; per fermento neorealista, invece, s’intende soprattutto l’espressione di tale tendenza in campo letterario, anche se non mancano puntate su altri terreni, dal cinema alla pittura, e più in generale nel campo della cultura laica, materialista e razionalista italiana nel periodo che va dal 1948 al 1959.
     Ne viene fuori una fotografia dell’intellighenzia abruzzese piena di chiaroscuri, dove alle diverse aperture nei confronti della temperie neorealista corrispondono altrettante chiusure dettate da un’impostazione culturale fortemente tradizionalista e reazionaria, a volte grettamente rinchiusa entro un orizzonte che non vede oltre la pesantissima ipoteca dannunziana.
     Una disamina del tessuto letterario abruzzese lucida e spietata, di cui si sentiva fortemente il bisogno, in una regione che stenta a fare i conti con le proprie radici culturali, spesso ritardanti rispetto a dinamiche storiche che hanno visto invece l’Abruzzo al centro di movimenti storici di primaria importanza (in primis la Resistenza).

Sandro de Nobile
IL FERMENTO E NON
Le riviste letterarie abruzzesi
e il neorealismo (1948-1959)
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-927-1]
Pagg. 160 - € 13,00

http://www.edizionisolfanelli.it/ilfermentoenon.htm

sabato 28 aprile 2012

Noventa e la visione sul fascismo che imbarazza i cattocomunisti

di Piero Angelo Vassallo

Nello scenario italiano, in cui gli scrittori più interessanti (Paolo Mieli dixit) sono emarginati dal severo sistema della concentrazione culturale a sinistra, le verità scomode e imbarazzanti hanno cittadinanza soltanto negli angusti e avari ambiti concessi alla sfida degli editori impavidi e al raro gusto dei lettori ribelli.

Se non che i divieti del potere inquisitorio, mentre disturbano o addirittura tormentano gli oppositori, non impediscono la circolazione della impertinente e irriducibile verità: lo si evince dal risultato dei duri colpi inferti alla credibilità sovietica da autori ridotti a vivere nella sospettata e sorvegliata marginalità o deportati direttamente nell'arcipelago Gulag. Valentino Cecchetti, sagace docente di letteratura italiana nell'Università della Tuscia e ostinato esploratore delle verità nascoste dall'intolleranza tardo-gramsciana, pubblica, per i tipi infrequentabili del bandito Marco Solfanelli, un saggio sulle sorprendenti aperture al fascismo di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960) un autore fino a ieri incapsulato nell'indeclinabile elenco degli adamantini antifascisti appartenenti all'area cattolica. 
Un denso, urticante capitolo (Giacomo Noventa, Giuseppe De Luca e le culture del fascismo) dell'intrigante saggio di Cecchetti esamina e riassume fedelmente le tesi formulate da Giacomo Noventa in vista di un approfondimento del costruttivo e cordiale dialogo in atto, nella Firenze degli anni Trenta, tra esponenti del cattolicesimo intransigente e interpreti dell'avanguardia fascista. Il dialogo di Noventa con i redattori cattolici della rivista «Frontespizio», allora impegnati nel dialogo, serrato e mai servile, con le culture del fascismo, iniziò nell'aprile del 1938, data della pubblicazione nella rivista «Riforma letteraria» di un articolo in cui si affermava che «una volontà effettiva di primato nazionale deve poggiare sulla consapevolezza, da parte dell'Italia, della relativa miseria dei risultati del suo Risorgimento e sulla necessità di una profonda revisione del processo storico che lo ha determinato». Nel testo di Noventa traspare l'avversione al neoidealismo di Spaventa, Croce e Gentile, che fu la corona filosofica del Risorgimento inteso come mala unità. L'avversione al neo idealismo era uno stato d'animo condiviso, oltre che dai cattolici fiorentini, dai protagonisti della Scuola di mistica fascista fondata da Arnaldo Mussolini e finalizzata alla riabilitazione della metafisica di San Tommaso e della scienza storica di Vico. Cecchetti osserva acutamente che «durante gli anni Trenta Noventa (anche per l'influsso della filosofia del migliore Maritain) si avvicina agli intellettuali cattolico-fascisti, nel tentativo di creare un comune fronte anti-idealistico ed elaborare una cultura, alternativa a quella egemone, che sia basata su un cattolicesimo allo stesso tempo classico e moderno... nel fascismo Noventa riconosce la premessa e l'affermazione di quella filosofia classica e cattolica alla quale aspirava e della quale si fa consapevole portavoce». È evidente che Noventa anticipa il programma dei tradizionalisti, che nel dopoguerra frequenteranno la destra: separare il neoidealismo dall'insorgenza fascista. Noventa proponeva «una nuova cultura italiana, emendata dai suoi errori storici e raccordata alla trionfante rivoluzione fascista». 
Cecchetti, in conclusione, ha aperto una nuova breccia nel muro cattocomunista.

Non sarà facile sigillarla con il silenzio dei media e con i rantoli dell'antifascismo.

http://www.ilgiornale.it/genova/noventa_e_visione_fascismo_che_imbarazza_cattocomunisti/28-04-2012/articolo-id=585402-page=0-comments=1

venerdì 23 marzo 2012

RECENSIONE di Antonio Catalfamo

GIACOMO D’ANGELO: OMAGGIO A NAZIM HIKMET, “CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE”
  
Così scrive Pablo Neruda, in Confesso che ho vissuto, a proposito di una visita in Unione Sovietica: «Nel 1949, appena uscito dall’esilio, fui invitato per la prima volta in Unione Sovietica, in occasione delle celebrazioni del centenario di Puškin. […] Mi trovavo in mezzo a un bosco in cui migliaia di contadini, con vecchi vestiti da festa, ascoltavano le poesie di Puškin. Sentivo tutto palpitare: uomini, foglie, zolle di terra in cui il grano nuovo cominciava a vivere. La natura sembrava formare un’unità vittoriosa con l’uomo». In Urss Neruda incontra il grande poeta turco Nazim Hikmet, che nel Paese dei soviet ha vissuto per lunghi anni in esilio. Ricorda il poeta cileno, Premio Nobel per la letteratura: «Il suo amore per questa terra che lo accolse, è espresso in questa frase sua: “Io credo nel futuro della poesia. Credo perché vivo nel paese in cui la poesia rappresenta l’esigenza più indispensabile dell’anima”».
Neruda descrive anche il lungo martirio a cui è stato sottoposto Hikmet nel suo Paese, la Turchia, in quanto poeta e militante comunista: «Nazim, accusato di voler organizzare un ammutinamento nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell’inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontarono come lo fecero camminare fino all’esaurimento sul ponte della nave, e poi lo misero nelle latrine, dove gli escrementi raggiungevano mezzo metro. Il mio fratello poeta si sentì  venir meno. Il puzzo lo faceva barcollare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte, vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, alla fine a squarciagola. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d’amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. Così trionfò sull’immondizia e sul martirio. Quando mi raccontava queste cose gli dissi: “Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare”».
Nessuno, meglio di Pablo Neruda, potrebbe raccontare chi è stato veramente Nazim Hikmet. E’ stato un comunista, innanzitutto, cioè un uomo che ama il popolo, a partire dal suo. Continua Neruda: «Mi parlava anche dei dolori del suo popolo. I contadini sono  brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare alla prigione, li vedeva dare in cambio di tabacco il tozzo di pane che ricevevano come unica razione. Cominciavano a guardare l’erba del cortile distrattamente. Poi con attenzione, quasi con gola. Un bel giorno si portarono qualche filo d’erba alla bocca. In seguito la strapparono a ciuffi che divoravano in gran fretta. Alla fine mangiavano l’erba a quattro zampe, come cavalli». Ma, andando al di là dei confini geografici, delle distinzioni razziali, Hikmet ha amato tutto il popolo del mondo, inteso in senso classista come proletariato, come insieme di uomini, di donne, di bambini  che sono sfruttati e ridotti alla fame dai padroni di ogni nazione e da quelli che operano a livello ancora più alto: i padroni del pianeta. Ed ha voluto cantare, con parole semplici, questo suo amore, perché tutti potessero capire le sue poesie, a partire dai protagonisti di quello che può essere considerato un unico, grande poema umano, che racchiude tutta la sua opera. Egli stesso ha scritto nella poesia Cantastorie della Rivoluzione: «Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre / credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all’uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro / ma innanzitutto ama l’uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell’animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell’uomo».
Generazioni di lettori hanno potuto apprezzare, a tutte le latitudini del mondo, nei decenni trascorsi, l’intero corpus delle poesie di Hikmet, che ci dà, appunto, l’immagine veritiera del poeta comunista completamente dedito alla causa degli umili, impegnato per tutta la vita nella costruzione di una società socialista, senza distinzioni di classi. Hikmet muore a Mosca, in esilio, nel 1963.
Nel 1960, gli Editori Riuniti hanno pubblicato in Italia, in un elegante cofanetto, due corposi volumi, intitolati rispettivamente Poesie e Teatro, che, in più di 1.300 pagine, propongono ai lettori del nostro Paese l’immensa opera di Nazim Hikmet. Custodisco gelosamente questo cofanetto nella mia biblioteca.
Ma da questa pubblicazione sono passati più di cinquant’anni. Qual è l’immagine che ha oggi di Hikmet il lettore italiano? Quale idea della sua poesia si possono formare i giovani, naturalmente quelli che hanno conservato il gusto di leggere libri?
Una risposta esauriente a queste domande viene da un aureo libretto, pubblicato per i tipi dell’editore Solfanelli, da Giacomo D’Angelo, figura multiforme di giornalista e scrittore. Lo scopo del volumetto, come spiega nell’Introduzione lo stesso autore, «è principalmente quello di denunciare il silenzio critico calato in Italia su Nazin Hikmet, già anticipato anni fa dalla Lussu. Nonostante il favore continuo dei lettori, che con straordinaria assiduità acquistano le tante ristampe delle sue liriche, l’orientamento editoriale è un calcolo di callida pigrizia, limitato alle poesie d’amore che vanno bene comunque specie a San Valentino (il santo delle stragi mafiose e degli innamorati peynetiani) con le vetrine allestite per la circostanza. Sulla quarta di copertina del titolo più esposto e venduto, Poesie d’amore (Oscar Mondadori, Milano 2006) si leggono parole capziose e tanto generiche quanto imbarazzanti». Ma, prosegue D’Angelo, «Hikmet non è l’Ovidio dell’Ars amatoria, né il Catullo di Lesbia, e nemmeno un epigono del Gabriele d’Annunzio alcionico, se mai lo ha letto. Il suo sentimento dell’amore è talmente esteso alle donne amate, ai figli, alla patria, alla Russia (“paese dei miei sogni”), al popolo turco e alla sua lingua, a tutti i popoli della terra, ai suoi ideali di libertà, da non poter essere circoscritto e ridotto a una parola ambiguamente polivalente».
Così Hikmet, al pari di Neruda, da poeta rivoluzionario è divenuto generico poeta d’amore. Purtroppo non si tratta solamente di «callida pigrizia» degli editori, come ben comprende D’Angelo. Tutta l’operazione rientra in quello che è stato definito «revisionismo storico-letterario». Qualcuno, con maggiore precisione, ha parlato di «rovescismo». La storia e la letteratura sono «riscritte» ad uso e consumo del potere e, in buona sostanza, sono falsificate. Non è un caso che la casa editrice che ha ridotto Hikmet a semplice poeta d’amore è la Mondadori, che ha molto a che fare con la famiglia Berlusconi. Intere generazioni di lettori ricevono un’immagine falsata di poeti e scrittori, ma anche degli avvenimenti storici. Siamo in presenza di un fenomeno che ancora non è stato analizzato in tutte le sue implicazioni e in tutti i suoi effetti nefasti. Solo qualche critico di valore, come Vittorio Spinazzola, ha condotto studi approfonditi sul mercato editoriale italiano, sulla sua configurazione attuale, sulle sue “strategie comunicative”, sul suo impatto sul pubblico dei lettori, sulla composizione sociale, sulla differenziazione e distribuzione geografica di quest’ultimo. Ben vengano, dunque, libri di denuncia come quello di Giacomo D’Angelo, che, pur nella loro essenzialità, danno l’input a studi più ampi e approfonditi. Il Nostro traccia, seppur sobriamente, un profilo biografico e critico incentrato sulla figura di Nazim Hikmet.
Ma va oltre. Coglie l’occasione per ricordare (anche qui brevemente, ma efficacemente) due figure di intellettuali che hanno avuto molto a che fare con il grande poeta turco. Si tratta di Velso Mucci e Joyce Lussu. Questi due intellettuali “poliedrici” sono stati volutamente dimenticati, perché anch’essi scomodi. Velso Mucci ha tradotto dal francese ( il “prototesto” a cui hanno attinto i traduttori francesi, naturalmente, era in turco) le poesie di Hikmet, a beneficio del pubblico italiano. Militante comunista, scrittore, poeta, critico d’arte, Mucci è stato sottovalutato in vita e dopo la morte. Nel 1967 la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato L’uomo di Torino, romanzo incompiuto. Nel 1968, presso lo stesso editore, è uscita una ricca antologia delle sue poesie, intitolata Carte in tavola. Però, anche negli anni di massimo fulgore, la critica ha seguito certi orientamenti che, a mio parere, vanno riconsiderati. Natalino Sapegno, nel suo scritto introduttivo al suddetto volume antologico, individua una cifra retorica nella poesia di Velso Mucci che, invece, è limpida, come quella leopardiana. Altri critici autorevoli (in particolare Ottavio Cecchi) riscontrano una «scissura» tra passato e presente, tra denuncia e protesta. A mio avviso, nell’opera di Mucci opera quella «dialettica dei tre presenti» che, secondo Concetto Marchesi, caratterizza il pensiero marxista: il passato serve a capire il presente e l’analisi dei mali del mondo spinge alla lotta per un futuro migliore. Ritengo, inoltre, che andrebbero rivalutati anche i saggi critici di Velso Mucci, raccolti in volume, nel 1977, dagli Editori Riuniti, sotto il titolo comune de L’azione letteraria.
Oggi le grandi case editrici non pubblicano più le opere di Mucci. Ma l’attenzione nei suoi confronti non è cessata del tutto, grazie, soprattutto, all’impegno del nipote, Alberto Alberti, che ha organizzato alcuni convegni e si è dato da fare per la ripubblicazione, con piccoli editori di valore, delle opere del Nostro. E’ in programma, ad esempio, una nuova edizione de L’uomo di Torino.
Infine, Giacomo D’Angelo si occupa di Joyce Lussu, anche lei traduttrice di Hikmet. Partigiana nel corso della Resistenza, poetessa, intellettuale impegnata nei movimenti di lotta a favore dei popoli oppressi, per la pace, a difesa dell’ambiente, della dignità delle donne. Grazie a lei abbiamo conosciuto in Italia non solo Hikmet, ma altri poeti rivoluzionari come Agosthino Neto e Ho Chi Minh. Assieme a lei sarebbe da rivalutare la figura del marito, Emilio Lussu, antifascista, parlamentare, scrittore di valore, purtroppo dimenticato.

Antonio Catalfamo


Giacomo D’Angelo
Cantastorie della rivoluzione
(Nazim Hikmet – Joyce Lussu – Velso Mucci)
Solfanelli editore
Chieti, 2008, pp. 57, euro 7,00.
     

lunedì 12 marzo 2012

RECENSIONE di Simone Gambacorta

Nonostante sia stato pubblicato quattro anni fa, è il caso di segnalare “Cantastorie delle rivoluzione” di Giacomo D’Angelo, un libro su Nâzım Hikmet edito da Solfanelli e tuttora in commercio. Un piccolo, pugnace volume col quale D’Angelo denuncia che la cultura italiana ha sempre emarginato il poeta turco (con silenzi anche molto "importanti", da Montale a Berardinelli), e che l'editoria di casa nostra, rea di una «callida pigrizia», non ha fatto altro che rimarcarne l'immagine di autore di poesie d'amore («Che vanno bene comunque, specie a San Valentino»). Il risultato di questa miscela è che il grande pubblico ha finito per considerare Hikmet come una scatola di cioccolatini, una specie di prodotto di consumo utile per fare regali senza darsi troppi pensieri. In verità Hikmet aveva un concetto dell'amore più ampio e complesso di quanto si creda, un «sentimento (...) talmente esteso» da non poter essere riassunto e liquidato in «una parola ambiguamente polivalente». Non solo gli incantamenti di chi spasima per il proprio Paolo o per la propria Francesca, ma un afflato politico e sociale che urla parole di libertà e di lotta, che ripudia l'oppressione e che nutre sogni di pace e uguaglianza. Il punto è che il delitto è stato compiuto, e per sanare la situazione non bastano alcuni tardivi interventi che tentano di rompere il silenzio e di offrire un'analisi più attenta e veritiera del poeta, come nel caso della rivista «Poesia», che D'Angelo cita per plaudire a un accurato saggio di Barbara La Rosa (con traduzione dal turco di versi inediti). Hikmet è stato un soldato di pace armato della fede nella letteratura e ha pagato sulla pelle il prezzo delle proprie idee, tanto da essere a lungo ospite delle carceri turche. La sua formazione ideologica, la sua opposizione ad Atatürk, il suo amore per la Russia e per Mosca (quel «crogiolo di cultura rivoluzionaria» dove si spense il 3 giugno 1963), gli arresti e le condanne che ha subito, ne fanno una delle figure più rappresentative fra gli intellettuali che seppero leggere e affrontare quel «secolo terribile» che è stato il Novecento. Convinto che la poesia dovesse essere «innanzi tutto utile, utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa, utile all’orecchio» (così in una lettera a Joyce Lussu), è stato «il fondatore della poesia realistica turca che nasce dal realismo socialista e si rivolge alle masse, prediligendo la struttura libera e lo stile discorsivo». Un poeta partigiano, insomma, un combattente che comprese la necessità delle “parole” di rivoluzione e di resistenza già a diciassette anni, quando scoprì la povertà e l’emarginazione dei contadini dell’Anatolia. Fu un "impatto", una vampata di fiamma viva esplosa nell'anima e destinata a ustionare i suoi occhi e il suo cuore, una «presa di coscienza esistenziale» che lo portò a maturare una concezione «antiestetizzante» e «siloniana» della poesia. Questo parallelismo che D'Angelo traccia è giusto e molto bello e c'è da scommettere che sarebbe piaciuto all’autore di “Fontamara” e della “Scuola dei dittatori” non meno che a tanti altri, per esempio il Ken Loach di "Terra e libertà". In questo pamphlet, che è scritto col tono duro e perentorio di chi conosce tanto a fondo un autore da non poterne più di vederlo maltrattato e ridotto a qualcosa di molto diverso da quello che è, D’Angelo si sofferma poi su due figure decisive per le sorti “italiane” di Hikmet, Joyce Lussu e Velso Mucci. È stato grazie a loro e alle loro traduzioni che dalle nostre parti ha trovato accoglienza il nome di un poeta che non solo ha scontato la galera, l'esilio e altre amene umiliazioni, ma che è stato letteralmente preso a sputi in faccia. La cosa risale al 1951, quando un quotidiano turco ne pubblicò in prima pagina la fotografia invitando tutti a sputare sul volto di quel «rinnegato comunista» e «traditore della patria». Il nerudiano "Confieso que he vivido", confesso che ho vissuto, vale pure per il grande Hikmet, che con la sua vita e la sua opera ha consegnato alla storia un lascito di valore universale. Non è certo necessario condividerne le idee per riconoscerne la forza del messaggio e l’autenticità dell’impegno, e tanto meno per amarne il dettato forte e aperto che lo ha portato, fra l’altro, a scrivere una poesia di disarmante e intensissima semplicità, “Forse la mia ultima lettera a Mehmet”, il figlio, che è un inno all’uomo, alla fratellanza, alla solidarietà, alla pietà: «Senti il dolore / del ramo che si secca, / della stella che si spegne, / dell’animale ferito, / ma innanzi tutto senti il dolore dell’uomo».

Simone Gambacorta

http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=453

domenica 11 marzo 2012

IL DIMENTICATO DIALOGO DI GIACOMO NOVENTA CON I PROTAGONISTI DELL'AVANGUARDIA FASCISTA

Nello scenario italiano, in cui gli scrittori più interessanti (Paolo Mieli dixit) sono emarginati dal severo sistema della concentrazione culturale a sinistra, le verità scomode e imbarazzanti hanno cittadinanza soltanto negli angusti e deplorati ambiti concessi alla sfida degli editori impavidi e al raro gusto dei lettori ribelli.
Se non che i divieti del potere inquisitorio, mentre disturbano o addirittura tormentano gli oppositori, non impediscono la circolazione della impertinente e irriducibile verità: lo si evince dal risultato dei duri colpi inferti alla credibilità sovietica da autori ridotti a vivere nella sospettata e sorvegliata marginalità o deportati direttamente nell'arcipelago Gulag.
Valentino Cecchetti, docente di letteratura italiana nell'Università della Tuscia e ostinato esploratore delle verità nascoste dall'intolleranza tardo-gramasciana, pubblica, per i tipi infrequentabili del bandito Marco Solfanelli, un saggio sulle sorprendenti aperture al fascismo di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960) un autore fino a ieri incapsulato nell'indeclinabile elenco degli adamantini antifascisti appartenenti all'area cattolica.
Un denso, urticante capitolo (Giacomo Noventa, Giuseppe De Luca e le culture del fascismo) dell'intrigante saggio di Cecchetti esamina e riassume fedelmente le tesi formulate da Giacomo Noventa in vista di un approfondimento del costruttivo e cordiale dialogo in atto, nella Firenze degli anni Trenta, tra esponenti del cattolicesimo intransigente e interpreti dell'avanguardia fascista.
Il dialogo di Noventa con i redattori cattolici della rivista "Frontespizio", allora impegnati nel dialogo, serrato e mai servile, con le culture del fascismo, iniziò nell'aprile del 1938, data della pubblicazione nella rivista "Riforma letteraria" di un articolo in cui si affermava che "una volontà effettiva di primato nazionale deve poggiare sulla consapevolezza, da parte dell'Italia, della relativa miseria dei risultati del suo Risorgimento e sulla necessità di una profonda revisione del processo storico che lo ha determinato".
Nel testo di Noventa traspare l'avversione al neoidealismo di Spaventa, Croce e Gentile, che fu la corona filosofica del Risorgimento inteso come mala unità.
L'avversione al neo idealismo era uno stato d'animo condiviso, oltre che dai cattolici fiorentini, dai protagonisti della Scuola di mistica fascista fondata da Arnaldo Mussolini e finalizzata alla riabilitazione della metafisica di San Tommaso e della scienza storica di Vico.
Cecchetti osserva acutamente che "durante gli anni Trenta Noventa [anche per l'influsso della filosofia del migliore Maritain] si avvicina agli intellettuali cattolico-fascisti, nel tentativo di creare un comune fronte anti-idealistico ed elaborare una cultura, alternativa a quella egemone, che sia basata su un cattolicesimo allo stesso tempo classico e moderno ... nel fascismo Noventa riconosce la premessa e l'affermazione di quella filosofia classica e cattolica alla quale aspirava e della quale si fa consapevole portavoce".
A puntuale sostegno della sua tesi, Cecchetti cita un testo di Noventa:"Il fascismo, che è iniziato con l'atto di audacia di una minoranza rivoluzionaria, è ormai privo di antagonismi storici: in esso l'Italia si è unificata e il Risorgimento si è concluso. Di questa nuova realtà non può essere interprete l'idealismo e l'Italia ha bisogno di un nuovo pensiero, classico e cattolico".
E' evidente che Noventa anticipa il programma dei tradizionalisti, che nel dopoguerra frequenteranno la destra: separare il neoidealismo dall'insorgenza fascista. Noventa proponeva "una nuova cultura italiana, emendata dai suoi errori storici e raccordata alla trionfante rivoluzione fascista".
La disgraziata ascesa del nazismo, le leggi razziali del 1938 e il disastroso esito della guerra hanno allontanato dalla scena storica la figura del fascismo.
Le disavventure e le tragedie non hanno cancellato tuttavia gli obiettivi della cultura italiana indicati da Noventa nel lontano 1938: la rimozione dell'egemonia neoidealista sul Risorgimento italiano e l'avvio di un movimento di pensiero indirizzato alla rifondazione della cultura nazionale.
L'ingiustificata deviazione democristiana dalla linea anti-idealista tracciata da Noventa ha infatti causato la surrettizia promozione della versione crociana del neoidealismo, strisciante nelle pagine di Antonio Gramsci e rampante nei disastrosi risultati del centrosinistra.
Di qui il male italiano ossia il consolidamento delle divisioni e il continuo aggiornamento dei furori ideologici, che hanno tormentato la storia italiana a partire dal 25 luglio 1943. Una ferita che non si può rimarginare senza il recupero delle ragioni del patriottismo liberato dalla suggestione neohegeliana e para-hegeliana, che ha dominato la breve storia degli anni Trenta.

Piero Vassallo

http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1399:il-dimenticato-dialogo-di-giacomo-noventa-con-i-protagonisti-dellavanguardia-fascista-di-piero-vassallo&catid=52:-a-cura-di-piero-vassallo&Itemid=123

venerdì 6 gennaio 2012

LA FABULA BELLA (recensione di Renzo Montagnoli)

Fu vera gloria?


“Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. “ Questo dice in tono perentorio uno dei bravi di don Rodrigo al pavido Don Abbondio.
La frase è arcinota, tanto che non è stato difficile farla riemergere dal labirinto della mia memoria, anche perché, quando fu letta e commentata a scuola dall’insegnante, mi venne il sospetto che, per quanto il Manzoni fosse andato a risciacquare i panni in Arno, avesse finito per delineare come autentica lingua italiana, e quindi da essere da tutti utilizzata, quel parlare proprio dei toscani che, nel caso specifico, si estrinseca nell’elisione della i davanti alla h del verbo.
In questo senso le comuni riletture de I promessi sposi sono effettuate o con lo scopo di evidenziare l’aspetto linguistico, oppure di privilegiare quello storico, e, meno frequentemente, con accorta equidistanza, entrambi.
Resta il fatto che mai romanzo italiano ebbe una diffusione come questo e che, per quanto non possa essere considerato popolare, chi più chi meno ne ha avuto sentore, se non altro per il fatto della sua obbligatorietà come testo scolastico.
Però, questa vicenda di un amore ostacolato nella sua realizzazione formale, di questo matrimonio tanto desiderato, ma che per qualcuno non si ha da fare, può essere letta anche in chiave sociologica ed è quel che ha fatto Carlo Bordoni con questo libro che, pur nella sua brevità, riesce a svolgere i propositi in modo esauriente e, cosa non da poco, facilmente comprensibile.
Quel che è particolare è rappresentato dall’occasione che ha indotto l’autore a porre mano a questo lavoro, vale a dire la riduzione televisiva del 1990 del regista Salvatore Nocita, frutto quindi di un mezzo, quello televisivo, capace di porgersi con fini didattici, ma che indubbiamente nasconde, per le potenzialità insite nello stesso, i pericoli di un assoggettamento dello spettatore, di un condizionamento della mente che di per sé finisce con il costituire l’oggetto di altre analisi sociologiche.
Di per sé l’opera è stata esaminata prescindendo dalla qualità intrinseca e considerandola alla stregua di un normale romanzo di consumo e astraendo così dal suo rilevante valore, nonché ignorando la corposa documentazione critica che seguì la sua uscita e che continua ancor oggi.
Il risultato di queste scelte, di quest’occhio attento più alle implicazioni sociologiche che al contesto letterario, è sbalorditivo, perché appare un romanzo totalmente nuovo, senza che con questo il giudizio sulla sua valenza venga sminuito, anche se, a ben guardare, risulta, sia pur di poco, ridimensionato.
Quella di Bordoni è una rilettura, insomma, fuori dai canoni e che evidenzia la trascurabile personalità dei due protagonisti principali, Lucia ligia al senso del suo onore femminile, abbastanza scialba, e Renzo, quasi un sempliciotto pronto a inalberarsi di fronte a un ostacolo, ma lesto a rimettere il capo sotto le ali.
Assume invece un rilievo particolare la figura di Gertrude, la monaca di Monza, esistita veramente e non quindi frutto di fantasia, la cui presenza nell’opera manzoniana può sembrare eccessiva in funzione della struttura e della trama della narrazione. Anche in questo caso avevo colto da studente l’anomalia, in un romanzo quasi matematico dall’apparire alla lunga freddo. Che il Manzoni avesse avuto pietà della triste vicenda di questa donna costretta per volere paterno in convento dove si risvegliò poi una passione, normale in altri luoghi, invereconda fra le mura di una casa di Dio? Molto probabilmente non fu così, perché l’autore, nel dare risalto agli aspetti negativi di una donna che in pratica cercò di ribellarsi alla sua condizione, intese invece in tal modo, e in contrapposizione, esaltare la fermezza di propositi di Lucia Mondella, però secondo un concetto di donna vista nei ristretti limiti di una mentalità che la considerava una costola dell’uomo.
Personalmente riconosco meriti al romanzo che tuttavia presenta luci e ombre, e non sempre le prime sono tali da far dimenticare le seconde, ma d’altra parte l’aria paternalistica di cui il testo è impregnato risente della posizione sociale dell’autore, un conservatore pio, pietoso anche, ma non di certo disposto a cambiare l’ordine gerarchico dell’umanità.
Ecco, il Manzoni cattolico, ligio alla conservazione, emerge in modo chiaro e non è difficile ipotizzare che l’uso del testo nelle scuole non fosse solo finalizzato allo studio della lingua italiana, ma costituisse un esempio-monito di ciò che le classi meno privilegiate dell’epoca dovessero aspettarsi, in una invariabilità dello status quo a tutto beneficio di chi deteneva il potere.
Bordoni riesce a cogliere nei personaggi le sfumature generalmente ignorate nella didattica e li rende meno astratti e più veritieri, così come anche alcuni opportuni rilievi circa l’inquadramento del periodo storico nell’opera manzoniana riportano il romanzo a una maggiore aderenza a realtà prima un po’ offuscate dalla fantasia.
Insomma, senza che per questo I promessi sposi diventino un’opera da gettare – e credo che non pochi studenti lo desidererebbero – quel che esce da La fabula bella è una più razionale valutazione di un romanzo dalle indubitabili qualità, ma non il capolavoro assoluto, giudizio che in epoca scolastica ci è stato surrettiziamente imposto.
Il libro di Bordoni è quindi senz’altro da leggere, magari con accanto un’edizione dei Promessi Sposi.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=9418

martedì 1 febbraio 2011

Presentazione: LA VITA È RICORDARSI (Roma, venerdì 4 febbraio 2011)


Libreria Colibrì
Via dei Latini n. 32 (San Lorenzo)
R O M A
Venerdì 4 febbraio 2011, ore 21,30
Presentazione del libro di
Andrea Barbetti - Giuseppe Grasso - Silvia Peronaci

LA VITA È RICORDARSI

Note su una poesia di Sandro Penna
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-83-6]
Pagg. 72 - € 7,00

martedì 25 gennaio 2011

LE SCARPE DI HEIDEGGER: recensione di Renzo Montagnoli

Le scarpe di Van Gogh

Ritengo opportuna una premessa: in questo interessante saggio di Bordoni non si parla delle calzature del filosofo tedesco, perché in fondo a nessuno può interessare di che tipo e misura fossero, bensì si disserta sulla diatriba intervenuta, a seguito della pubblicazione del libro L’origine dell’opera d’arte dello stesso Heidegger, con lo storico dell’arte ed esperto nella pittura di Van Gogh Meyer Shapiro e con il filosofo francese Jacques Derrida.
Le scarpe in questione, in verità, sono quelle che compaiono in numerosi quadri del grande pittore olandese e che attrassero l’attenzione del filosofo tedesco.
In buona sostanza, nel suo saggio L’origine dell’opera d’arte, pubblicato nel 1950 ed elaborazione di una conferenza tenuta a Friburgo nel 1935, si dice che nell’origine di qualsiasi prodotto artistico consiste la sua essenza, vale a dire che l’essenza è ciò da cui e per cui una cosa è quel che è ed è come effettivamente è. Da questa constatazione deriva che è l’artista l’origine dell’opera, anche se contemporaneamente l’opera è origine dell’artista, in quanto, realizzandola, egli diventa un’artista.
Questa deduzione impone però un’altra deduzione e che cioè la comune origine dell’artista e dell’opera d’arte sia l’arte, il che fa sorgere il problema di definire l’arte, cioè di determinare la sua essenza. Poiché un concetto deduttivo imporrebbe che il concetto di arte esisterebbe prima e in modo indipendente dell’opera d’arte stessa, mentre quello induttivo riveniente dall’analisi diretta di alcune opere d’arte significherebbe ammettere di essere già in possesso di quel concetto di arte che si tende a definire, si rende necessario procedere all’analisi di una precisa opera, onde constatare o meno se in essa sia presente l’elemento artistico.
Ed è qui che entrano in gioco le scarpe dipinte da Van Gogh, scarpe da contadina, e il pittore olandese ha il pregio di averci fatto conoscere che cosa veramente esse siano, cioè un semplice mezzo usato per meglio camminare.
Tale posizione è contrastata da Shapiro che è dell’opinione che quelle siano le calzature usate da Van Gogh, precisando che se anche fossero state scarpe da contadina egli le avrebbe dipinte con l’intento di eseguire un parziale autoritratto, dal che ne discende un concetto di soggettività dell’arte opposto all’oggettività di Heidegger e cioè con l’opera si concretizza la piena soggettività dell’artista e quindi il soggetto del quadro, le scarpe per intenderci, sono l’espressione della individuale personalità dell’artista.
Nella diatriba intervenne poi Derrida, pure lui in netta contrapposizione a Heidegger e quindi, pur se in altro modo, sostenendo la piena soggettività dell’artista.
Le scarpe di Heidegger non è certo un saggio facile, perché non è difficile perdersi nei meandri del pensiero di Heidegger, mentre quelli di Shapiro e di Derida sono assai più accessibili, anche perché concreti, ma va dato merito a Carlo Bordoni di essere riuscito a riepilogare una contesa che infiammò gli animi dei filosofi e degli artisti, secondo un preciso filo logico che riesce a mantenere dall’inizio alla fine, una sorta di corda di sicurezza a cui il lettore può tenersi agganciato nel procedere in una lettura appassionante, sia pur così complessa.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=7809

giovedì 25 novembre 2010

Morire altrimenti: Recensione di Ettore Brocca (Mangialibri.com)


Pensare la morte è davvero inevitabile? La cogitazione cartesiana orientava l’intera riflessione filosofica alla cosiddetta meditatio mortis. Buona parte della tradizione novecentesca ha tutto sommato ammodernato i propri strumenti speculativi, eppure poco è cambiato dalle tormentate meditazioni seicentesche. La filosofia dunque dovrebbe assumersi ancora una volta, a differenza delle scienze, l’oneroso impegno di ricostruire e analizzare l’estremo limite dell’esistente. La certezza è chiara: non possiamo non morire. La possibilità è pertanto negata e a fortiori è necessario morire. La necessità e l’inevitabilità della morte sussumono la chiave di lettura per tracciare una mappa delle grandi domande dell’Esistenza, domande che nella visione foucaltiana non sono altro che un enorme compendio alla forma dialogica della tradizione classica, per non dire platonica. Ricorrono perciò le parole di un regista, filosofo minore, Wim Wenders, il quale ne Il cielo sopra Berlino riassume la domanda del non essere più o dell’essere stato (p. 52): «Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che una volta io, che sono io, non sarò quello che sono?». E come dimenticare l’apporto che la de-finizione, perciò mai raggiunta, di nulla ha permesso di com-prendere e riflettere la condizione di ciò che non è più? Il ruolo di leva del suicidio è qui chiarissimo, intraprendere il superamento del limite per guardare aldilà di ciò che per definizione non può essere guardato. Naturalizzare il suicidio, nella sua estrema sintesi, è un osservare il tentativo di superare il limite della morte per giungere a una verità necessaria: quella di non essere più...
Il saggio di Corrado è decisamente audace in quanto tenta di conciliare il gioco della filosofia con l’adulta - e perciò non più giocosa - riflessione sulla morte. In questo senso, la filosofia che mette in campo non intende giustificare lo status quo, fatto proprio da presunte filosofie positive logicizzanti e dunque dogmaticamente negative, ma vuole affrontare seriamente il problema dell’estremo limite ponendo l’accento su quell’altrimenti del titolo: «Stante la validità della protensione differenziale dell’avverbio “altrimenti”, questa si estenderebbe idealmente fino a sospendere l’indefettibilità assoluta della morte, qui non a caso virata nell’infinito morire». Un punto di forza notevole dell’intera riflessione di Corrado è questa sensazione di incomprensibile che le riflessioni sulla morte portano con sé, presagio urtante per un interlocutore poco avvezzo all’idioletto filosofico. Per il lettore dovrà essere chiaro che la ragione può poco di fronte a quest’inevitabile così ben descritto. L’unica ragione, sostantivata e pertanto non positiva, sarà quella di fornire almeno un interrogativo a un problema radicale: saremo ancora noi, quando non saremo più?

Ettore Brocca

http://www.mangialibri.com/node/7354

lunedì 9 agosto 2010

LA FOLLIA IN SCENA: recensione di Rosa Aimoni

Il saggio di Gianluca Corrado “La follia in scena” descrive il rapporto tra la normalità e la follia esaminando l’opinione di vari e rinomati pensatori al riguardo, come ad esempio Foucault e Derrida.
L’esclusione del folle da parte della società avviene su due fronti: quando essa lo respinge perché egli non è in grado di capire le norme della maggioranza, e quando non permette al folle stesso di comprendere il linguaggio astratto e metaforico che si formalizza in arte. Arte che peraltro vorrebbe simulare la follia, ma che da essa profondamente si discosta; è proprio per questo il suo significato astratto è precluso al folle. E c’è una differenza di fondo tra l’arte e la follia, entrambe espressioni di qualcosa che differisce dai principi comunemente accettati: l’arte, pur discostandosi dalle norme sociali, viene presto inglobata in esse e subito collocata nel contesto della maggioranza. L’arte è manifestazione consentita di ciò che è difforme rispetto alla normalità, ma viene presto ricondotta in essa perché palesa un significato che si pone in antitesi rispetto alla norma condivisa, un’ antitesi che però presuppone necessariamente una base comune con essa, pur nella diversità. Alla “follia del folle” manca invece il significato, la ragione diversa ma basata pure sul sentire comune, che permette un confronto con la normalità.
Questo saggio di Gianluca Corrado evidenza le differenze, usando i termini della dialettica hegeliana, tra follia, l’arte e la normalità. Ma allora qual è la differenza tra arte e follia? L’estetica si spinge veramente oltre, fino a condividere con la follia la sua infondatezza rispetto alle norme sociali condivise? O forse è proprio simulando la follia, entro la convinzione che tutto possa essere relativizzato, che l’artista si discosta dalla follia stessa? E ancora, l’arte contemporanea è veramente in grado di mettere in discussione l’apparato di norme socialmente condiviso? Proprio su questi e altri interrogativi il saggio di Corrado si spinge con approfondite argomentazioni, senza omettere di porgere dubbi che stimolano inevitabilmente il lettore alla riflessone, regalando allo stesso un notevole arricchimento culturale sulla materia.

Rosa Aimoni

http://www.sololibri.net/La-follia-in-scena-di-Gianluca.html

venerdì 23 luglio 2010

La follia in scena: RECENSIONE di Rosa Aimoni

Il saggio di Gianluca Corrado “La follia in scena” descrive il rapporto tra la normalità e la follia esaminando l’opinione di vari e rinomati pensatori al riguardo, come ad esempio Foucault e Derrida.



L’esclusione del folle da parte della società avviene su due fronti: quando essa lo respinge perché egli non è in grado di capire le norme della maggioranza, e quando non permette al folle stesso di comprendere il linguaggio astratto e metaforico che si formalizza in arte. Arte che peraltro vorrebbe simulare la follia, ma che da essa profondamente si discosta; è proprio per questo il suo significato astratto è precluso al folle. E c’è una differenza di fondo tra l’arte e la follia, entrambe espressioni di qualcosa che differisce dai principi comunemente accettati: l’arte, pur discostandosi dalle norme sociali, viene presto inglobata in esse e subito collocata nel contesto della maggioranza. L’arte è manifestazione consentita di ciò che è difforme rispetto alla normalità, ma viene presto ricondotta in essa perché palesa un significato che si pone in antitesi rispetto alla norma condivisa, un’ antitesi che però presuppone necessariamente una base comune con essa, pur nella diversità. Alla “follia del folle” manca invece il significato, la ragione diversa ma basata pure sul sentire comune, che permette un confronto con la normalità.



Questo saggio di Gianluca Corrado evidenza le differenze, usando i termini della dialettica hegeliana, tra follia, l’arte e la normalità. Ma allora qual è la differenza tra arte e follia? L’estetica si spinge veramente oltre, fino a condividere con la follia la sua infondatezza rispetto alle norme sociali condivise? O forse è proprio simulando la follia, entro la convinzione che tutto possa essere relativizzato, che l’artista si discosta dalla follia stessa? E ancora, l’arte contemporanea è veramente in grado di mettere in discussione l’apparato di norme socialmente condiviso? Proprio su questi e altri interrogativi il saggio di Corrado si spinge con approfondite argomentazioni, senza omettere di porgere dubbi che stimolano inevitabilmente il lettore alla riflessone, regalando allo stesso un notevole arricchimento culturale sulla materia.



Rosa Aimoni



http://www.sololibri.net/La-follia-in-scena-di-Gianluca.html







giovedì 27 maggio 2010

Anteprima: MORIRE ALTRIMENTI di Gianluca Corrado

Gianluca Corrado
Morire altrimenti
Riflessioni filosofiche


Ammesso e non concesso che ciascuno di noi debba morire – generalizzazione “induttiva” che secondo rigore logico è provocatoriamente relativizzabile –, in ogni caso si può cercare di morire in maniera differente: al di qua delle prospettive d’immortalità dell’anima e di resurrezione (o reincarnazione) dogmatizzate dalle religioni, e al di là della certezza del nulla postumo manifestata da un diffuso razionalismo.
Per tentare di “morire altrimenti” bisogna accogliere la morte come intrinsecamente inaccertabile e inesauribile, dato che si situa oltre il confine delle facoltà di verifica naturale. Ma a questa sospensione di giudizio la cultura odierna anche laica si mostra sempre più refrattaria, riducendo l’essere all’esistere, fondando tutto sulla tecnica dell’uomo artefice e controllore, quindi tendendo a rimuovere quell’evento di annientamento assoluto che su tali premesse la morte rappresenta.
Intessuta in particolare delle riflessioni di Heidegger, Sartre, Jankélévitch, Foucault e soffermandosi pure sul suicidio, la configurazione che si profila in questo libro accetta l’ignoto della morte. Ecco perché né si rassegna all’idea che dopo sia necessariamente il nulla, né si adagia sull’idea di un sicuro aldilà ancora a immagine e somiglianza dell’uomo naturale.


Gianluca Corrado è nato a Viareggio nel 1968. Laureato in filosofia, lavora nell’editoria e si occupa di pensiero psicotico presso Servizi Ascot di Firenze. Collabora con “Estetica”, “Iride”, “Il Ponte”, “La questione Romantica”, “Cultura tedesca” e altre riviste. Con Solfanelli ha pubblicato La follia in scena (2008); Il folle e la società. Il dibattito tra Foucault e Chomsky (2009).

martedì 12 gennaio 2010

Novità: LA VITA È RICORDARSI

«La vita… è ricordarsi di un risveglio» è il celebre incipit della raccolta poetica del 1939 con il quale viene spesso identificata la poesia epigrammatica di Sandro Penna. Questo studio a tre è un esercizio di esegesi del suo nume poetico. Se l’espressione lirica implica soggettivazione, la sua interpretazione tende invece ad un certo grado di oggettivazione. Prima viene la creazione, poi l’ascolto e la lettura.
Il poeta è colui che interloquisce col nulla e lo trascrive; l’esegeta, più concretamente, dialoga con la materia poetica servitagli dall’artista. Valéry ha spesso ribadito che i versi hanno il senso che dà loro il lettore. Non è difficile, però, scadere nella mistificazione quando il testo diventa pretesto.
Gli autori, interpreti attenti e rispettosi, non sono incappati in questa trappola; possiedono sensibilità da non trasformare i versi in questione nel feticcio di una gratuita ermeneutica e la “pratica” filosofica operata sul componimento dà una coloritura inedita al libro.
La dovizia dei rimandi bibliografici fa inoltre di questo lavoro testuale un valido apporto alla critica su Penna, il quale, incurante delle mode e pur avendo conosciuto feconde stagioni di rilettura, rimane in fondo, dal pubblico, più amato che studiato. Queste pagine, corredate di due scritti del poeta perugino, intendono contribuire, nel loro piccolo, a tale riparazione.


Andrea Barbetti - Giuseppe Grasso - Silvia Peronaci
LA VITA È RICORDARSI
Note su una poesia di Sandro Penna

Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-83-6]
Pagg. 72 - € 7,00

martedì 1 dicembre 2009

RECENSIONE di Rosa Aimoni a IL FOLLE E LA SOCIETÀ

Questo saggio vuole esporre al lettore due visioni completamente diverse del modo di vedere la cosiddetta follia o malattia mentale. Il tema è più che mai attuale; molto spesso, infatti, si discute sull’essenza stessa della malattia mentale, sull’opportunità di assoggettare il paziente a trattamento sanitario obbligatorio, sulla necessità di prescrivere psicofarmaci.

Il libro espone con coerenza due dottrine agli antipodi mettendone in evidenza per ciascuna i limiti: quella di Foucault che sostiene, considerando ogni intervento sul malato illecito, che la follia debba essere intesa non come devianza ma come differenza rispetto alla presunta normalità; quella di Chomsky che invece afferma che i fondamenti della natura umana abbiano carattere universale e che ogni deviazione dalla norma debba essere considerata anomala e quindi curata.

Il saggio di Corrado è un libro da leggere, non solo perché espone con chiarezza il dibattito, ancora attuale, tra i due famosi intellettuali del recente passato, ma anche perché la conclusione a cui perviene l’autore può essere utile sia all’ammalato o “Altro” sia alla sedicente normalità, che deve considerare il confronto con il diverso come un momento di crescita.

Alle due differenti visioni di Foucault e Chomsky, l’autore risponde proponendo una soluzione conciliativa che, se da un lato accetta di mettere in discussione la normalità, dall’altro tenta di intervenire sulla follia proprio per evitare al malato una vita di solitudine e al contempo avvantaggiare il suo dialogo con la maggioranza sociale.

Il libro di Corrado fornisce anche un utile arricchimento culturale perché vengono tratteggiati i diversi modi in cui la follia è stata vista nel corso della storia e le idee di altri grandi pensatori. Il saggio garantisce, inoltre, l’apprendimento di qualcosa di diverso: la nuova teoria che l’autore, con la sua consapevolezza ed esperienza, propone al lettore con l’obiettivo, di certo raggiunto, di superare i limiti delle precedenti.

Rosa Aimoni

http://www.sololibri.net/Il-folle-e-la-societa-di-Gianluca.html

giovedì 1 ottobre 2009

Novità: IL FOLLE E LA SOCIETÀ

Pochissimi filosofi come Michel Foucault hanno visto nel folle non un malato mentale, quanto il depositario di una differente accezione del senso e della libertà, titolato ad autodeterminarsi nella propria originarietà.
Tuttavia sino a che punto, nei fatti, questa meritoria posizione accredita al pazzo un’inviolata autonomia e piuttosto non lo rinserra in un isolamento dalla compagine sociale e dai suoi scambi, che in buona parte prevedono norme da condividere e ordini a cui conformarsi?
Nel ripercorrere lo sfaccettato confronto del 1971 tra Foucault e il linguista Noam Chomsky, per il quale la pazzia è un’alterazione della natura mentale anzitutto da curare e da assistere, il presente volume perviene all’esigenza pratica di una sintesi delle due visioni: trattare il pazzo non soltanto come un paziente, ma pure come un’occasione per la cosiddetta normalità d’interrogarsi sui luoghi comuni del proprio “benessere”, contestualmente evitando però che la differenza del folle sia esasperata in una diversità che non si aiuta – anche mediante la terapia – a entrare in dialogo con la maggioranza sociale.

Gianluca Corrado, nato a Viareggio nel 1968, è laureato in filosofia. Membro del comitato di redazione della rivista “La questione Romantica”, lavora nell’editoria e si occupa di pensiero psicotico presso Servizi Ascot di Firenze e l’associazione ALI – Autonomia Lavoro Integrazione.
Per volumi collettanei e riviste ha scritto saggi di ermeneutica e di estetica. Con Solfanelli, nel 2008, ha pubblicato La follia in scena.


Gianluca Corrado
IL FOLLE E LA SOCIETÀ
Il dibattito tra Foucault e Chomsky
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-65-2]
Pagg. 136 - € 9,00

http://www.edizionisolfanelli.it/ilfolleelasocieta.htm

venerdì 7 agosto 2009

PERCORSI TRA ARTE E CINEMA IN ITALIA

Le avventure delle immagini
Percorsi tra arte e cinema in Italia
di Francesco Galluzzi
ed. Solfanelli, pagg.117, 2009
Recensione di Ninni Radicini in
http://www.tuttoitalia.ch/tuttoitalia/news.asp?IDNotizia=11745

lunedì 6 luglio 2009

LE AVVENTURE DELLE IMMAGINI: recensione di Ninni Radicini

L'immagine del mondo classico nella cinematografia italiana ha caratterizzato la produzione e il dibattito critico fin dall'inizio dell'industria della riproducibilità delle immagini in movimento, sulla scia delle novità apportate dalle avanguardie nelle arti visive tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e della rilevanza assunta nello stesso periodo dall'archeologia come ricerca delle origini e riappropriazione della Storia, in funzione della formazione della identità nazionale. L'ambientazione greco-romana è stata una delle prime ad essere utilizzata: nel 1898 Georges Melies girava Pygmalion et Galathèe. Come dimostrato da Cabiria (regia di Giovanni Pastrone, 1914) - primo kolossal italiano a cui collaborarono anche D'Annunzio e Salgari -, le ricostruzioni storiche furono soggette a due forze non sempre convergenti: l'accuratezza filologica e la spettacolarizzazione della messinscena.
La questione del rapporto tra realtà storica e trasposizione cinematografica non fu però circoscritta alle produzioni italiane e ancora nel 1927 la rivista inglese "Close up" pubblicava un articolo di Hilda Doolittle, a sostegno di una linea di essenzialità, di "purezza", in alternativa allo stile di Griffith e DeMille. All'inizio non tutte le avanguardie artistiche credettero alle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Tra gli scettici, a sorpresa, vi erano i futuristi, seppure si trattò di una circostanza di brevissima durata. Virgilio Marchi, architetto proveniente dal movimento ideato da Marinetti, diventò uno dei più grandi scenografi del cinema italiano (es. La corona di ferro) e la partecipazione degli artisti fu tale da determinare la nascita di un genere "futurista", uno dei tre su cui si resse la produzione italiana dei primi due decenni del Novecento: il terzo in ordine di rilevanza, dopo quello storico e quello realista.
La partecipazione di pittori, architetti, scultori al lavoro di registi, sceneggiatori, attori, a cominciare da quelli estranei alle avanguardie, fu determinante per lo sviluppo della cinematografia, poiché al di là di ogni dibattito teorico intesero il cinema come occasione di applicazione della propria creatività. A metà degli anni Venti l'insuccesso di Gli ultimi giorni di Pompei di Carmine Gallone e Amleto Palermi determina una crisi del genere storico-archeologico. Un decennio, Gallone lo riprende dirigendo Scipione l'Africano, premiato poi al Festival del Cinema di Venezia del 1937. Nella rappresentazione imperiale di colui che sconfisse Annibale, l'accuratezza nella ricostruzione dell'antica Roma è accompagnata dall'anacronismo dei titoli di testa, che scorrono sui "rilievi traianei" con chiari intenti propagandistici.
Nel 1947, un nuovo tentativo fu compiuto da Alessandro Blasetti con Fabiola. Nella narrazione della vicenda della conversione al cristianesimo della patrizia romana, il regista utilizzò sia i parametri già consolidati nei decenni precedenti per gli ambienti romani, sia quelli del neorealismo per le parti relative alla comunità cristiana. La ripresa avvenne nel decennio seguente sulla scia del successo popolare delle produzioni americane girate in Italia (Cleopatra, Ben Hur) e italo-americane (Ulisse di Mario Camerini, con Kirk Douglas). Cinecittà diventa la "Hollywood sul Tevere" ma soprattutto la conseguente disponibilità di costumi e scenografie invoglia i produttori italiani a utilizzare in modo pragmatico e geniale questa congiuntura. Fu l'inizio di un nuovo genere - il peplum - che riprendeva alcune delle caratteristiche di quello d'inizio secolo (es. la narrazione) ma si dimostrò innovativo in virtù della provenienza culturale e professionale dei nuovi registi.
Molti dei loro, oggi considerati autori di culto su scala internazionale, provenivano da esperienze nell'ambito delle arti visive e della fotografia, da cui una caratterizzazione di questa nuova era del film storico-mitologico non tanto per la plausibilità della ricostruzione storica quanto per le elaborazioni visive innovative, derivate dalla letteratura e dalle nuove correnti artistiche. A parte qualche esempio di ricerca di verosimiglianza storica (es. Ercole alla conquista di Atlantide, regia di Vittorio Cottafavi, 1961), già la prima pellicola peplum, Le fatiche di Ercole (1958, regia di Pietro Francisci) reinterpreta la Grecia classica, attraverso Hölderlin, Nietzsche, e il rapporto freudiano tra mitologia e psiche.
Nel celeberrimo Maciste all'Inferno (1962), il regista Riccardo Freda ambienta la trama nella Scozia del XVII secolo, facendo scendere il protagonista negli abissi terrestri per combattere contro figure rievocanti la mitologica greca in scenari tipici della pittura di Bosch. Mario Bava in Ercole al centro della Terra (1961) utilizza effetti psichedelici. Questi però non sono anacronismi né tantomeno errori; sono invece contaminazioni storico-culturali finalizzate alla realizzazione di un prodotto in linea con le nuove istanze artistiche della società dei consumi degli anni Sessanta e dell'affermazione dei nuovi mass media, prima tra tutti la televisione.
Negli anni tra l'Ottocento e il Novecento le arti plastiche attraversano una ridefinizione profonda e l'avvento del cinema avvia un rapporto paritario che farà evolvere entrambi, ancora più di avvenuto con l'invenzione della fotografia. Alcuni artisti, tra cui Kandinsky e Malevic, ipotizzarono la realizzazione di film e Kahnweiler prevedeva una evoluzione del Cubismo nel cinema di animazione. Intanto in tema di utilizzo del cinema come mezzo di comunicazione per costruire e rafforzare l'identità nazionale, dopo il genere storico-archeologico, che richiamava i fasti imperiali romani, si afferma una nuova linea narrativa incentrata sul periodo del Risorgimento, allora anche culturalmente più vicino: il conteso storico, la letteratura e la pittura dell'Ottocento. A volte con articolazioni sorprendenti.
In Malombra (1942), Mario Soldati fa riferimento al dipinto Isola dei morti di Böcklin e in 1860 Alessandro Blasetti - il film è del 1934 - utilizza il dialetto in modo non folkloristico, marcandone in modo pressoché esplicito l'essere elemento fondante della cultura popolare italiana. La convergenza tra il realismo nella pittura e nella letteratura (in particolare quella di Verga) e il cinema giunge al culmine, ed a una svolta di interpretativa contemporanea, nel 1943 con Ossessione, di Luchino Visconti. Nello stesso periodo si sosteneva l'opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza - già sperimentata nel cinema francese degli anni 30 - fu Renato Guttuso, i cui dipinti di ambientazione popolare, meridionale, contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo nuovo genere cinematografico italiano postbellico: il Neorealismo.
Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell'immediato secondo dopoguerra, il Neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini). Nel 1954 sarà ancora Luchino Visconti a segnare una ulteriore svolta con Senso, film storico a colori, che recupera il calligrafismo del cinema di rievocazione risorgimentale, da lui stesso consegnato alla storia dopo Ossessione. Ma non si trattò di un ritorno al passato poichè la citazione pittorica e l'impianto letterario furono orientati a una lettura critica, come lo sarà poi Il Gattopardo.
In questo stesso periodo un certo numero di artisti scelgono di entrare in modo diretto nell'ambito cinematografico. I fondatori di Forma 1 frequentano il Centro Sperimentale e uno di loro, Mino Guerrini, diventerà regista, girando varie pellicole tra gli anni '60 e '80. La stessa figura dell'artista diventa caratteristica della società italiana al punto da essere rappresentata in vari film (es. Le amiche, 1955; Roma ore 11, 1952). Nella scelta dei paesaggi in due decenni si passa dalla prevalenza degli scenari periferici (neorealismo) al patrimonio artistico in versione cartolina (neorealismo rosa) all'inquadratura dell'opera arte a sostegno delle scelte stilistiche del regista. Tra coloro che si ritiene abbia ottenuto i migliori risultati nella composizione tra inquadratura dell'opera e sequenza vi fu Michelangelo Antonioni. Intanto negli anni '60 arriva la Pop Art e il rapporto tra arte e cinema cambia ancora. Mario Bava nel 1968 dirige Diabolik, uno dei migliori esempi di applicazione della nuova corrente. Soprattutto, si afferma la televisione che incide in modo definitivo sul modo si costruire l'immagine e di relazionarla con lo spettatore.
Negli anni Trenta, il documentario d'arte comincia ad acquisire un interesse crescente. Aumentano le produzioni e diventa motivo di una significativa riflessione teorica, sia da parte dei registi, sia da degli storici dell'arte. Del documentario artistico già la cinematografia degli anni Trenta e Quaranta (il Formalismo o Calligrafismo) di Mario Soldati, Renato Castellani e Mario Camerini, aveva fatto propri vari parametri. Negli anni Cinquanta a sostegno di questo genere vi fu la convinzione che la macchina da presa fosse un potenziamento dell'occhio e che il film d'arte potesse essere parte del sistema divulgativo e formativo incentrato sul cinema (e sulla televisione) a beneficio del progresso della società italiana.
Sul rapporto tra macchina da presa e opera d'arte le valutazioni differivano. Ad affermarsi fu lo stile di Luciano Emmer in cui l'opera veniva adattata agli standard cinematografici. Non mancarono gli storici dell'arte passati alla regia, come Carlo Ludovico Ragghianti, che tentò di realizzare una sintesi tra il purovisibilismo viennese e la sua formazione crociana, e Roberto Longhi, una delle personalità più influenti nello sviluppo teorico del cinema degli anni '50 e '60.
Francesco Galluzzi, storico e critico d'arte, docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti di Palermo e di Arte e cinema alla Scuola di specializzazione di Storia dell'arte dell'Università di Siena, già autore di altri saggi, nei tre capitoli di Le avventure delle immagini, descrive il rapporto tra arti visive e cinema in Italia dai primi del Novecento fino agli anni Sessanta (riferimenti anche a produzioni degli anni Settanta e Ottanta), con modalità appropriate sia a lettori già esperti sia a coloro che volessero approfondire lo studio della storia della cinematografia italiana in anni ritenuti tra i più dinamici e innovativi. Da quel contesto storico e teorico è derivata una produzione tuttora di riferimento per registi e operatori del settore, compresi generi e personaggi riscoperti e rivalutati a partire dagli anni Novanta dalla critica e dagli spettatori.

Ninni Radicini

http://www.ninniradicini.it/libri/arte-cinema-italia.htm