venerdì 23 marzo 2012

RECENSIONE di Antonio Catalfamo

GIACOMO D’ANGELO: OMAGGIO A NAZIM HIKMET, “CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE”
  
Così scrive Pablo Neruda, in Confesso che ho vissuto, a proposito di una visita in Unione Sovietica: «Nel 1949, appena uscito dall’esilio, fui invitato per la prima volta in Unione Sovietica, in occasione delle celebrazioni del centenario di Puškin. […] Mi trovavo in mezzo a un bosco in cui migliaia di contadini, con vecchi vestiti da festa, ascoltavano le poesie di Puškin. Sentivo tutto palpitare: uomini, foglie, zolle di terra in cui il grano nuovo cominciava a vivere. La natura sembrava formare un’unità vittoriosa con l’uomo». In Urss Neruda incontra il grande poeta turco Nazim Hikmet, che nel Paese dei soviet ha vissuto per lunghi anni in esilio. Ricorda il poeta cileno, Premio Nobel per la letteratura: «Il suo amore per questa terra che lo accolse, è espresso in questa frase sua: “Io credo nel futuro della poesia. Credo perché vivo nel paese in cui la poesia rappresenta l’esigenza più indispensabile dell’anima”».
Neruda descrive anche il lungo martirio a cui è stato sottoposto Hikmet nel suo Paese, la Turchia, in quanto poeta e militante comunista: «Nazim, accusato di voler organizzare un ammutinamento nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell’inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontarono come lo fecero camminare fino all’esaurimento sul ponte della nave, e poi lo misero nelle latrine, dove gli escrementi raggiungevano mezzo metro. Il mio fratello poeta si sentì  venir meno. Il puzzo lo faceva barcollare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte, vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, alla fine a squarciagola. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d’amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. Così trionfò sull’immondizia e sul martirio. Quando mi raccontava queste cose gli dissi: “Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare”».
Nessuno, meglio di Pablo Neruda, potrebbe raccontare chi è stato veramente Nazim Hikmet. E’ stato un comunista, innanzitutto, cioè un uomo che ama il popolo, a partire dal suo. Continua Neruda: «Mi parlava anche dei dolori del suo popolo. I contadini sono  brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare alla prigione, li vedeva dare in cambio di tabacco il tozzo di pane che ricevevano come unica razione. Cominciavano a guardare l’erba del cortile distrattamente. Poi con attenzione, quasi con gola. Un bel giorno si portarono qualche filo d’erba alla bocca. In seguito la strapparono a ciuffi che divoravano in gran fretta. Alla fine mangiavano l’erba a quattro zampe, come cavalli». Ma, andando al di là dei confini geografici, delle distinzioni razziali, Hikmet ha amato tutto il popolo del mondo, inteso in senso classista come proletariato, come insieme di uomini, di donne, di bambini  che sono sfruttati e ridotti alla fame dai padroni di ogni nazione e da quelli che operano a livello ancora più alto: i padroni del pianeta. Ed ha voluto cantare, con parole semplici, questo suo amore, perché tutti potessero capire le sue poesie, a partire dai protagonisti di quello che può essere considerato un unico, grande poema umano, che racchiude tutta la sua opera. Egli stesso ha scritto nella poesia Cantastorie della Rivoluzione: «Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre / credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all’uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro / ma innanzitutto ama l’uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell’animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell’uomo».
Generazioni di lettori hanno potuto apprezzare, a tutte le latitudini del mondo, nei decenni trascorsi, l’intero corpus delle poesie di Hikmet, che ci dà, appunto, l’immagine veritiera del poeta comunista completamente dedito alla causa degli umili, impegnato per tutta la vita nella costruzione di una società socialista, senza distinzioni di classi. Hikmet muore a Mosca, in esilio, nel 1963.
Nel 1960, gli Editori Riuniti hanno pubblicato in Italia, in un elegante cofanetto, due corposi volumi, intitolati rispettivamente Poesie e Teatro, che, in più di 1.300 pagine, propongono ai lettori del nostro Paese l’immensa opera di Nazim Hikmet. Custodisco gelosamente questo cofanetto nella mia biblioteca.
Ma da questa pubblicazione sono passati più di cinquant’anni. Qual è l’immagine che ha oggi di Hikmet il lettore italiano? Quale idea della sua poesia si possono formare i giovani, naturalmente quelli che hanno conservato il gusto di leggere libri?
Una risposta esauriente a queste domande viene da un aureo libretto, pubblicato per i tipi dell’editore Solfanelli, da Giacomo D’Angelo, figura multiforme di giornalista e scrittore. Lo scopo del volumetto, come spiega nell’Introduzione lo stesso autore, «è principalmente quello di denunciare il silenzio critico calato in Italia su Nazin Hikmet, già anticipato anni fa dalla Lussu. Nonostante il favore continuo dei lettori, che con straordinaria assiduità acquistano le tante ristampe delle sue liriche, l’orientamento editoriale è un calcolo di callida pigrizia, limitato alle poesie d’amore che vanno bene comunque specie a San Valentino (il santo delle stragi mafiose e degli innamorati peynetiani) con le vetrine allestite per la circostanza. Sulla quarta di copertina del titolo più esposto e venduto, Poesie d’amore (Oscar Mondadori, Milano 2006) si leggono parole capziose e tanto generiche quanto imbarazzanti». Ma, prosegue D’Angelo, «Hikmet non è l’Ovidio dell’Ars amatoria, né il Catullo di Lesbia, e nemmeno un epigono del Gabriele d’Annunzio alcionico, se mai lo ha letto. Il suo sentimento dell’amore è talmente esteso alle donne amate, ai figli, alla patria, alla Russia (“paese dei miei sogni”), al popolo turco e alla sua lingua, a tutti i popoli della terra, ai suoi ideali di libertà, da non poter essere circoscritto e ridotto a una parola ambiguamente polivalente».
Così Hikmet, al pari di Neruda, da poeta rivoluzionario è divenuto generico poeta d’amore. Purtroppo non si tratta solamente di «callida pigrizia» degli editori, come ben comprende D’Angelo. Tutta l’operazione rientra in quello che è stato definito «revisionismo storico-letterario». Qualcuno, con maggiore precisione, ha parlato di «rovescismo». La storia e la letteratura sono «riscritte» ad uso e consumo del potere e, in buona sostanza, sono falsificate. Non è un caso che la casa editrice che ha ridotto Hikmet a semplice poeta d’amore è la Mondadori, che ha molto a che fare con la famiglia Berlusconi. Intere generazioni di lettori ricevono un’immagine falsata di poeti e scrittori, ma anche degli avvenimenti storici. Siamo in presenza di un fenomeno che ancora non è stato analizzato in tutte le sue implicazioni e in tutti i suoi effetti nefasti. Solo qualche critico di valore, come Vittorio Spinazzola, ha condotto studi approfonditi sul mercato editoriale italiano, sulla sua configurazione attuale, sulle sue “strategie comunicative”, sul suo impatto sul pubblico dei lettori, sulla composizione sociale, sulla differenziazione e distribuzione geografica di quest’ultimo. Ben vengano, dunque, libri di denuncia come quello di Giacomo D’Angelo, che, pur nella loro essenzialità, danno l’input a studi più ampi e approfonditi. Il Nostro traccia, seppur sobriamente, un profilo biografico e critico incentrato sulla figura di Nazim Hikmet.
Ma va oltre. Coglie l’occasione per ricordare (anche qui brevemente, ma efficacemente) due figure di intellettuali che hanno avuto molto a che fare con il grande poeta turco. Si tratta di Velso Mucci e Joyce Lussu. Questi due intellettuali “poliedrici” sono stati volutamente dimenticati, perché anch’essi scomodi. Velso Mucci ha tradotto dal francese ( il “prototesto” a cui hanno attinto i traduttori francesi, naturalmente, era in turco) le poesie di Hikmet, a beneficio del pubblico italiano. Militante comunista, scrittore, poeta, critico d’arte, Mucci è stato sottovalutato in vita e dopo la morte. Nel 1967 la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato L’uomo di Torino, romanzo incompiuto. Nel 1968, presso lo stesso editore, è uscita una ricca antologia delle sue poesie, intitolata Carte in tavola. Però, anche negli anni di massimo fulgore, la critica ha seguito certi orientamenti che, a mio parere, vanno riconsiderati. Natalino Sapegno, nel suo scritto introduttivo al suddetto volume antologico, individua una cifra retorica nella poesia di Velso Mucci che, invece, è limpida, come quella leopardiana. Altri critici autorevoli (in particolare Ottavio Cecchi) riscontrano una «scissura» tra passato e presente, tra denuncia e protesta. A mio avviso, nell’opera di Mucci opera quella «dialettica dei tre presenti» che, secondo Concetto Marchesi, caratterizza il pensiero marxista: il passato serve a capire il presente e l’analisi dei mali del mondo spinge alla lotta per un futuro migliore. Ritengo, inoltre, che andrebbero rivalutati anche i saggi critici di Velso Mucci, raccolti in volume, nel 1977, dagli Editori Riuniti, sotto il titolo comune de L’azione letteraria.
Oggi le grandi case editrici non pubblicano più le opere di Mucci. Ma l’attenzione nei suoi confronti non è cessata del tutto, grazie, soprattutto, all’impegno del nipote, Alberto Alberti, che ha organizzato alcuni convegni e si è dato da fare per la ripubblicazione, con piccoli editori di valore, delle opere del Nostro. E’ in programma, ad esempio, una nuova edizione de L’uomo di Torino.
Infine, Giacomo D’Angelo si occupa di Joyce Lussu, anche lei traduttrice di Hikmet. Partigiana nel corso della Resistenza, poetessa, intellettuale impegnata nei movimenti di lotta a favore dei popoli oppressi, per la pace, a difesa dell’ambiente, della dignità delle donne. Grazie a lei abbiamo conosciuto in Italia non solo Hikmet, ma altri poeti rivoluzionari come Agosthino Neto e Ho Chi Minh. Assieme a lei sarebbe da rivalutare la figura del marito, Emilio Lussu, antifascista, parlamentare, scrittore di valore, purtroppo dimenticato.

Antonio Catalfamo


Giacomo D’Angelo
Cantastorie della rivoluzione
(Nazim Hikmet – Joyce Lussu – Velso Mucci)
Solfanelli editore
Chieti, 2008, pp. 57, euro 7,00.
     

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