lunedì 12 marzo 2012

RECENSIONE di Simone Gambacorta

Nonostante sia stato pubblicato quattro anni fa, è il caso di segnalare “Cantastorie delle rivoluzione” di Giacomo D’Angelo, un libro su Nâzım Hikmet edito da Solfanelli e tuttora in commercio. Un piccolo, pugnace volume col quale D’Angelo denuncia che la cultura italiana ha sempre emarginato il poeta turco (con silenzi anche molto "importanti", da Montale a Berardinelli), e che l'editoria di casa nostra, rea di una «callida pigrizia», non ha fatto altro che rimarcarne l'immagine di autore di poesie d'amore («Che vanno bene comunque, specie a San Valentino»). Il risultato di questa miscela è che il grande pubblico ha finito per considerare Hikmet come una scatola di cioccolatini, una specie di prodotto di consumo utile per fare regali senza darsi troppi pensieri. In verità Hikmet aveva un concetto dell'amore più ampio e complesso di quanto si creda, un «sentimento (...) talmente esteso» da non poter essere riassunto e liquidato in «una parola ambiguamente polivalente». Non solo gli incantamenti di chi spasima per il proprio Paolo o per la propria Francesca, ma un afflato politico e sociale che urla parole di libertà e di lotta, che ripudia l'oppressione e che nutre sogni di pace e uguaglianza. Il punto è che il delitto è stato compiuto, e per sanare la situazione non bastano alcuni tardivi interventi che tentano di rompere il silenzio e di offrire un'analisi più attenta e veritiera del poeta, come nel caso della rivista «Poesia», che D'Angelo cita per plaudire a un accurato saggio di Barbara La Rosa (con traduzione dal turco di versi inediti). Hikmet è stato un soldato di pace armato della fede nella letteratura e ha pagato sulla pelle il prezzo delle proprie idee, tanto da essere a lungo ospite delle carceri turche. La sua formazione ideologica, la sua opposizione ad Atatürk, il suo amore per la Russia e per Mosca (quel «crogiolo di cultura rivoluzionaria» dove si spense il 3 giugno 1963), gli arresti e le condanne che ha subito, ne fanno una delle figure più rappresentative fra gli intellettuali che seppero leggere e affrontare quel «secolo terribile» che è stato il Novecento. Convinto che la poesia dovesse essere «innanzi tutto utile, utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa, utile all’orecchio» (così in una lettera a Joyce Lussu), è stato «il fondatore della poesia realistica turca che nasce dal realismo socialista e si rivolge alle masse, prediligendo la struttura libera e lo stile discorsivo». Un poeta partigiano, insomma, un combattente che comprese la necessità delle “parole” di rivoluzione e di resistenza già a diciassette anni, quando scoprì la povertà e l’emarginazione dei contadini dell’Anatolia. Fu un "impatto", una vampata di fiamma viva esplosa nell'anima e destinata a ustionare i suoi occhi e il suo cuore, una «presa di coscienza esistenziale» che lo portò a maturare una concezione «antiestetizzante» e «siloniana» della poesia. Questo parallelismo che D'Angelo traccia è giusto e molto bello e c'è da scommettere che sarebbe piaciuto all’autore di “Fontamara” e della “Scuola dei dittatori” non meno che a tanti altri, per esempio il Ken Loach di "Terra e libertà". In questo pamphlet, che è scritto col tono duro e perentorio di chi conosce tanto a fondo un autore da non poterne più di vederlo maltrattato e ridotto a qualcosa di molto diverso da quello che è, D’Angelo si sofferma poi su due figure decisive per le sorti “italiane” di Hikmet, Joyce Lussu e Velso Mucci. È stato grazie a loro e alle loro traduzioni che dalle nostre parti ha trovato accoglienza il nome di un poeta che non solo ha scontato la galera, l'esilio e altre amene umiliazioni, ma che è stato letteralmente preso a sputi in faccia. La cosa risale al 1951, quando un quotidiano turco ne pubblicò in prima pagina la fotografia invitando tutti a sputare sul volto di quel «rinnegato comunista» e «traditore della patria». Il nerudiano "Confieso que he vivido", confesso che ho vissuto, vale pure per il grande Hikmet, che con la sua vita e la sua opera ha consegnato alla storia un lascito di valore universale. Non è certo necessario condividerne le idee per riconoscerne la forza del messaggio e l’autenticità dell’impegno, e tanto meno per amarne il dettato forte e aperto che lo ha portato, fra l’altro, a scrivere una poesia di disarmante e intensissima semplicità, “Forse la mia ultima lettera a Mehmet”, il figlio, che è un inno all’uomo, alla fratellanza, alla solidarietà, alla pietà: «Senti il dolore / del ramo che si secca, / della stella che si spegne, / dell’animale ferito, / ma innanzi tutto senti il dolore dell’uomo».

Simone Gambacorta

http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=453

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