venerdì 23 marzo 2012

RECENSIONE di Antonio Catalfamo

GIACOMO D’ANGELO: OMAGGIO A NAZIM HIKMET, “CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE”
  
Così scrive Pablo Neruda, in Confesso che ho vissuto, a proposito di una visita in Unione Sovietica: «Nel 1949, appena uscito dall’esilio, fui invitato per la prima volta in Unione Sovietica, in occasione delle celebrazioni del centenario di Puškin. […] Mi trovavo in mezzo a un bosco in cui migliaia di contadini, con vecchi vestiti da festa, ascoltavano le poesie di Puškin. Sentivo tutto palpitare: uomini, foglie, zolle di terra in cui il grano nuovo cominciava a vivere. La natura sembrava formare un’unità vittoriosa con l’uomo». In Urss Neruda incontra il grande poeta turco Nazim Hikmet, che nel Paese dei soviet ha vissuto per lunghi anni in esilio. Ricorda il poeta cileno, Premio Nobel per la letteratura: «Il suo amore per questa terra che lo accolse, è espresso in questa frase sua: “Io credo nel futuro della poesia. Credo perché vivo nel paese in cui la poesia rappresenta l’esigenza più indispensabile dell’anima”».
Neruda descrive anche il lungo martirio a cui è stato sottoposto Hikmet nel suo Paese, la Turchia, in quanto poeta e militante comunista: «Nazim, accusato di voler organizzare un ammutinamento nella marina turca, fu condannato a tutte le pene dell’inferno. Il processo ebbe luogo su una nave da guerra. Mi raccontarono come lo fecero camminare fino all’esaurimento sul ponte della nave, e poi lo misero nelle latrine, dove gli escrementi raggiungevano mezzo metro. Il mio fratello poeta si sentì  venir meno. Il puzzo lo faceva barcollare. Allora pensò: i miei carnefici mi stanno sicuramente osservando da qualche parte, vogliono vedermi cadere, vogliono contemplarmi con disprezzo. Con superbia le sue forze risorsero. Cominciò a cantare, dapprima a bassa voce, poi a voce più alta, alla fine a squarciagola. Cantò tutte le canzoni, tutti i versi d’amore che ricordava, le sue poesie, le romanze dei contadini, gli inni di lotta del suo popolo. Cantò tutto quello che sapeva. Così trionfò sull’immondizia e sul martirio. Quando mi raccontava queste cose gli dissi: “Fratello mio, hai cantato per tutti noi. Non abbiamo più bisogno di dubitare, di pensare a quello che faremo. Ormai sappiamo tutti quando dobbiamo cominciare a cantare”».
Nessuno, meglio di Pablo Neruda, potrebbe raccontare chi è stato veramente Nazim Hikmet. E’ stato un comunista, innanzitutto, cioè un uomo che ama il popolo, a partire dal suo. Continua Neruda: «Mi parlava anche dei dolori del suo popolo. I contadini sono  brutalmente perseguitati dai signori feudali della Turchia. Nazim li vedeva arrivare alla prigione, li vedeva dare in cambio di tabacco il tozzo di pane che ricevevano come unica razione. Cominciavano a guardare l’erba del cortile distrattamente. Poi con attenzione, quasi con gola. Un bel giorno si portarono qualche filo d’erba alla bocca. In seguito la strapparono a ciuffi che divoravano in gran fretta. Alla fine mangiavano l’erba a quattro zampe, come cavalli». Ma, andando al di là dei confini geografici, delle distinzioni razziali, Hikmet ha amato tutto il popolo del mondo, inteso in senso classista come proletariato, come insieme di uomini, di donne, di bambini  che sono sfruttati e ridotti alla fame dai padroni di ogni nazione e da quelli che operano a livello ancora più alto: i padroni del pianeta. Ed ha voluto cantare, con parole semplici, questo suo amore, perché tutti potessero capire le sue poesie, a partire dai protagonisti di quello che può essere considerato un unico, grande poema umano, che racchiude tutta la sua opera. Egli stesso ha scritto nella poesia Cantastorie della Rivoluzione: «Non vivere su questa terra / come un inquilino / oppure in villeggiatura / nella natura / vivi in questo mondo / come se fosse la casa di tuo padre / credi al grano al mare alla terra / ma soprattutto all’uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro / ma innanzitutto ama l’uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell’animale infermo / ma innanzitutto la tristezza dell’uomo».
Generazioni di lettori hanno potuto apprezzare, a tutte le latitudini del mondo, nei decenni trascorsi, l’intero corpus delle poesie di Hikmet, che ci dà, appunto, l’immagine veritiera del poeta comunista completamente dedito alla causa degli umili, impegnato per tutta la vita nella costruzione di una società socialista, senza distinzioni di classi. Hikmet muore a Mosca, in esilio, nel 1963.
Nel 1960, gli Editori Riuniti hanno pubblicato in Italia, in un elegante cofanetto, due corposi volumi, intitolati rispettivamente Poesie e Teatro, che, in più di 1.300 pagine, propongono ai lettori del nostro Paese l’immensa opera di Nazim Hikmet. Custodisco gelosamente questo cofanetto nella mia biblioteca.
Ma da questa pubblicazione sono passati più di cinquant’anni. Qual è l’immagine che ha oggi di Hikmet il lettore italiano? Quale idea della sua poesia si possono formare i giovani, naturalmente quelli che hanno conservato il gusto di leggere libri?
Una risposta esauriente a queste domande viene da un aureo libretto, pubblicato per i tipi dell’editore Solfanelli, da Giacomo D’Angelo, figura multiforme di giornalista e scrittore. Lo scopo del volumetto, come spiega nell’Introduzione lo stesso autore, «è principalmente quello di denunciare il silenzio critico calato in Italia su Nazin Hikmet, già anticipato anni fa dalla Lussu. Nonostante il favore continuo dei lettori, che con straordinaria assiduità acquistano le tante ristampe delle sue liriche, l’orientamento editoriale è un calcolo di callida pigrizia, limitato alle poesie d’amore che vanno bene comunque specie a San Valentino (il santo delle stragi mafiose e degli innamorati peynetiani) con le vetrine allestite per la circostanza. Sulla quarta di copertina del titolo più esposto e venduto, Poesie d’amore (Oscar Mondadori, Milano 2006) si leggono parole capziose e tanto generiche quanto imbarazzanti». Ma, prosegue D’Angelo, «Hikmet non è l’Ovidio dell’Ars amatoria, né il Catullo di Lesbia, e nemmeno un epigono del Gabriele d’Annunzio alcionico, se mai lo ha letto. Il suo sentimento dell’amore è talmente esteso alle donne amate, ai figli, alla patria, alla Russia (“paese dei miei sogni”), al popolo turco e alla sua lingua, a tutti i popoli della terra, ai suoi ideali di libertà, da non poter essere circoscritto e ridotto a una parola ambiguamente polivalente».
Così Hikmet, al pari di Neruda, da poeta rivoluzionario è divenuto generico poeta d’amore. Purtroppo non si tratta solamente di «callida pigrizia» degli editori, come ben comprende D’Angelo. Tutta l’operazione rientra in quello che è stato definito «revisionismo storico-letterario». Qualcuno, con maggiore precisione, ha parlato di «rovescismo». La storia e la letteratura sono «riscritte» ad uso e consumo del potere e, in buona sostanza, sono falsificate. Non è un caso che la casa editrice che ha ridotto Hikmet a semplice poeta d’amore è la Mondadori, che ha molto a che fare con la famiglia Berlusconi. Intere generazioni di lettori ricevono un’immagine falsata di poeti e scrittori, ma anche degli avvenimenti storici. Siamo in presenza di un fenomeno che ancora non è stato analizzato in tutte le sue implicazioni e in tutti i suoi effetti nefasti. Solo qualche critico di valore, come Vittorio Spinazzola, ha condotto studi approfonditi sul mercato editoriale italiano, sulla sua configurazione attuale, sulle sue “strategie comunicative”, sul suo impatto sul pubblico dei lettori, sulla composizione sociale, sulla differenziazione e distribuzione geografica di quest’ultimo. Ben vengano, dunque, libri di denuncia come quello di Giacomo D’Angelo, che, pur nella loro essenzialità, danno l’input a studi più ampi e approfonditi. Il Nostro traccia, seppur sobriamente, un profilo biografico e critico incentrato sulla figura di Nazim Hikmet.
Ma va oltre. Coglie l’occasione per ricordare (anche qui brevemente, ma efficacemente) due figure di intellettuali che hanno avuto molto a che fare con il grande poeta turco. Si tratta di Velso Mucci e Joyce Lussu. Questi due intellettuali “poliedrici” sono stati volutamente dimenticati, perché anch’essi scomodi. Velso Mucci ha tradotto dal francese ( il “prototesto” a cui hanno attinto i traduttori francesi, naturalmente, era in turco) le poesie di Hikmet, a beneficio del pubblico italiano. Militante comunista, scrittore, poeta, critico d’arte, Mucci è stato sottovalutato in vita e dopo la morte. Nel 1967 la casa editrice Feltrinelli ha pubblicato L’uomo di Torino, romanzo incompiuto. Nel 1968, presso lo stesso editore, è uscita una ricca antologia delle sue poesie, intitolata Carte in tavola. Però, anche negli anni di massimo fulgore, la critica ha seguito certi orientamenti che, a mio parere, vanno riconsiderati. Natalino Sapegno, nel suo scritto introduttivo al suddetto volume antologico, individua una cifra retorica nella poesia di Velso Mucci che, invece, è limpida, come quella leopardiana. Altri critici autorevoli (in particolare Ottavio Cecchi) riscontrano una «scissura» tra passato e presente, tra denuncia e protesta. A mio avviso, nell’opera di Mucci opera quella «dialettica dei tre presenti» che, secondo Concetto Marchesi, caratterizza il pensiero marxista: il passato serve a capire il presente e l’analisi dei mali del mondo spinge alla lotta per un futuro migliore. Ritengo, inoltre, che andrebbero rivalutati anche i saggi critici di Velso Mucci, raccolti in volume, nel 1977, dagli Editori Riuniti, sotto il titolo comune de L’azione letteraria.
Oggi le grandi case editrici non pubblicano più le opere di Mucci. Ma l’attenzione nei suoi confronti non è cessata del tutto, grazie, soprattutto, all’impegno del nipote, Alberto Alberti, che ha organizzato alcuni convegni e si è dato da fare per la ripubblicazione, con piccoli editori di valore, delle opere del Nostro. E’ in programma, ad esempio, una nuova edizione de L’uomo di Torino.
Infine, Giacomo D’Angelo si occupa di Joyce Lussu, anche lei traduttrice di Hikmet. Partigiana nel corso della Resistenza, poetessa, intellettuale impegnata nei movimenti di lotta a favore dei popoli oppressi, per la pace, a difesa dell’ambiente, della dignità delle donne. Grazie a lei abbiamo conosciuto in Italia non solo Hikmet, ma altri poeti rivoluzionari come Agosthino Neto e Ho Chi Minh. Assieme a lei sarebbe da rivalutare la figura del marito, Emilio Lussu, antifascista, parlamentare, scrittore di valore, purtroppo dimenticato.

Antonio Catalfamo


Giacomo D’Angelo
Cantastorie della rivoluzione
(Nazim Hikmet – Joyce Lussu – Velso Mucci)
Solfanelli editore
Chieti, 2008, pp. 57, euro 7,00.
     

lunedì 12 marzo 2012

RECENSIONE di Simone Gambacorta

Nonostante sia stato pubblicato quattro anni fa, è il caso di segnalare “Cantastorie delle rivoluzione” di Giacomo D’Angelo, un libro su Nâzım Hikmet edito da Solfanelli e tuttora in commercio. Un piccolo, pugnace volume col quale D’Angelo denuncia che la cultura italiana ha sempre emarginato il poeta turco (con silenzi anche molto "importanti", da Montale a Berardinelli), e che l'editoria di casa nostra, rea di una «callida pigrizia», non ha fatto altro che rimarcarne l'immagine di autore di poesie d'amore («Che vanno bene comunque, specie a San Valentino»). Il risultato di questa miscela è che il grande pubblico ha finito per considerare Hikmet come una scatola di cioccolatini, una specie di prodotto di consumo utile per fare regali senza darsi troppi pensieri. In verità Hikmet aveva un concetto dell'amore più ampio e complesso di quanto si creda, un «sentimento (...) talmente esteso» da non poter essere riassunto e liquidato in «una parola ambiguamente polivalente». Non solo gli incantamenti di chi spasima per il proprio Paolo o per la propria Francesca, ma un afflato politico e sociale che urla parole di libertà e di lotta, che ripudia l'oppressione e che nutre sogni di pace e uguaglianza. Il punto è che il delitto è stato compiuto, e per sanare la situazione non bastano alcuni tardivi interventi che tentano di rompere il silenzio e di offrire un'analisi più attenta e veritiera del poeta, come nel caso della rivista «Poesia», che D'Angelo cita per plaudire a un accurato saggio di Barbara La Rosa (con traduzione dal turco di versi inediti). Hikmet è stato un soldato di pace armato della fede nella letteratura e ha pagato sulla pelle il prezzo delle proprie idee, tanto da essere a lungo ospite delle carceri turche. La sua formazione ideologica, la sua opposizione ad Atatürk, il suo amore per la Russia e per Mosca (quel «crogiolo di cultura rivoluzionaria» dove si spense il 3 giugno 1963), gli arresti e le condanne che ha subito, ne fanno una delle figure più rappresentative fra gli intellettuali che seppero leggere e affrontare quel «secolo terribile» che è stato il Novecento. Convinto che la poesia dovesse essere «innanzi tutto utile, utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa, utile all’orecchio» (così in una lettera a Joyce Lussu), è stato «il fondatore della poesia realistica turca che nasce dal realismo socialista e si rivolge alle masse, prediligendo la struttura libera e lo stile discorsivo». Un poeta partigiano, insomma, un combattente che comprese la necessità delle “parole” di rivoluzione e di resistenza già a diciassette anni, quando scoprì la povertà e l’emarginazione dei contadini dell’Anatolia. Fu un "impatto", una vampata di fiamma viva esplosa nell'anima e destinata a ustionare i suoi occhi e il suo cuore, una «presa di coscienza esistenziale» che lo portò a maturare una concezione «antiestetizzante» e «siloniana» della poesia. Questo parallelismo che D'Angelo traccia è giusto e molto bello e c'è da scommettere che sarebbe piaciuto all’autore di “Fontamara” e della “Scuola dei dittatori” non meno che a tanti altri, per esempio il Ken Loach di "Terra e libertà". In questo pamphlet, che è scritto col tono duro e perentorio di chi conosce tanto a fondo un autore da non poterne più di vederlo maltrattato e ridotto a qualcosa di molto diverso da quello che è, D’Angelo si sofferma poi su due figure decisive per le sorti “italiane” di Hikmet, Joyce Lussu e Velso Mucci. È stato grazie a loro e alle loro traduzioni che dalle nostre parti ha trovato accoglienza il nome di un poeta che non solo ha scontato la galera, l'esilio e altre amene umiliazioni, ma che è stato letteralmente preso a sputi in faccia. La cosa risale al 1951, quando un quotidiano turco ne pubblicò in prima pagina la fotografia invitando tutti a sputare sul volto di quel «rinnegato comunista» e «traditore della patria». Il nerudiano "Confieso que he vivido", confesso che ho vissuto, vale pure per il grande Hikmet, che con la sua vita e la sua opera ha consegnato alla storia un lascito di valore universale. Non è certo necessario condividerne le idee per riconoscerne la forza del messaggio e l’autenticità dell’impegno, e tanto meno per amarne il dettato forte e aperto che lo ha portato, fra l’altro, a scrivere una poesia di disarmante e intensissima semplicità, “Forse la mia ultima lettera a Mehmet”, il figlio, che è un inno all’uomo, alla fratellanza, alla solidarietà, alla pietà: «Senti il dolore / del ramo che si secca, / della stella che si spegne, / dell’animale ferito, / ma innanzi tutto senti il dolore dell’uomo».

Simone Gambacorta

http://www.galaadedizioni.com/dblog/articolo.asp?articolo=453

domenica 11 marzo 2012

IL DIMENTICATO DIALOGO DI GIACOMO NOVENTA CON I PROTAGONISTI DELL'AVANGUARDIA FASCISTA

Nello scenario italiano, in cui gli scrittori più interessanti (Paolo Mieli dixit) sono emarginati dal severo sistema della concentrazione culturale a sinistra, le verità scomode e imbarazzanti hanno cittadinanza soltanto negli angusti e deplorati ambiti concessi alla sfida degli editori impavidi e al raro gusto dei lettori ribelli.
Se non che i divieti del potere inquisitorio, mentre disturbano o addirittura tormentano gli oppositori, non impediscono la circolazione della impertinente e irriducibile verità: lo si evince dal risultato dei duri colpi inferti alla credibilità sovietica da autori ridotti a vivere nella sospettata e sorvegliata marginalità o deportati direttamente nell'arcipelago Gulag.
Valentino Cecchetti, docente di letteratura italiana nell'Università della Tuscia e ostinato esploratore delle verità nascoste dall'intolleranza tardo-gramasciana, pubblica, per i tipi infrequentabili del bandito Marco Solfanelli, un saggio sulle sorprendenti aperture al fascismo di Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi, 1898-1960) un autore fino a ieri incapsulato nell'indeclinabile elenco degli adamantini antifascisti appartenenti all'area cattolica.
Un denso, urticante capitolo (Giacomo Noventa, Giuseppe De Luca e le culture del fascismo) dell'intrigante saggio di Cecchetti esamina e riassume fedelmente le tesi formulate da Giacomo Noventa in vista di un approfondimento del costruttivo e cordiale dialogo in atto, nella Firenze degli anni Trenta, tra esponenti del cattolicesimo intransigente e interpreti dell'avanguardia fascista.
Il dialogo di Noventa con i redattori cattolici della rivista "Frontespizio", allora impegnati nel dialogo, serrato e mai servile, con le culture del fascismo, iniziò nell'aprile del 1938, data della pubblicazione nella rivista "Riforma letteraria" di un articolo in cui si affermava che "una volontà effettiva di primato nazionale deve poggiare sulla consapevolezza, da parte dell'Italia, della relativa miseria dei risultati del suo Risorgimento e sulla necessità di una profonda revisione del processo storico che lo ha determinato".
Nel testo di Noventa traspare l'avversione al neoidealismo di Spaventa, Croce e Gentile, che fu la corona filosofica del Risorgimento inteso come mala unità.
L'avversione al neo idealismo era uno stato d'animo condiviso, oltre che dai cattolici fiorentini, dai protagonisti della Scuola di mistica fascista fondata da Arnaldo Mussolini e finalizzata alla riabilitazione della metafisica di San Tommaso e della scienza storica di Vico.
Cecchetti osserva acutamente che "durante gli anni Trenta Noventa [anche per l'influsso della filosofia del migliore Maritain] si avvicina agli intellettuali cattolico-fascisti, nel tentativo di creare un comune fronte anti-idealistico ed elaborare una cultura, alternativa a quella egemone, che sia basata su un cattolicesimo allo stesso tempo classico e moderno ... nel fascismo Noventa riconosce la premessa e l'affermazione di quella filosofia classica e cattolica alla quale aspirava e della quale si fa consapevole portavoce".
A puntuale sostegno della sua tesi, Cecchetti cita un testo di Noventa:"Il fascismo, che è iniziato con l'atto di audacia di una minoranza rivoluzionaria, è ormai privo di antagonismi storici: in esso l'Italia si è unificata e il Risorgimento si è concluso. Di questa nuova realtà non può essere interprete l'idealismo e l'Italia ha bisogno di un nuovo pensiero, classico e cattolico".
E' evidente che Noventa anticipa il programma dei tradizionalisti, che nel dopoguerra frequenteranno la destra: separare il neoidealismo dall'insorgenza fascista. Noventa proponeva "una nuova cultura italiana, emendata dai suoi errori storici e raccordata alla trionfante rivoluzione fascista".
La disgraziata ascesa del nazismo, le leggi razziali del 1938 e il disastroso esito della guerra hanno allontanato dalla scena storica la figura del fascismo.
Le disavventure e le tragedie non hanno cancellato tuttavia gli obiettivi della cultura italiana indicati da Noventa nel lontano 1938: la rimozione dell'egemonia neoidealista sul Risorgimento italiano e l'avvio di un movimento di pensiero indirizzato alla rifondazione della cultura nazionale.
L'ingiustificata deviazione democristiana dalla linea anti-idealista tracciata da Noventa ha infatti causato la surrettizia promozione della versione crociana del neoidealismo, strisciante nelle pagine di Antonio Gramsci e rampante nei disastrosi risultati del centrosinistra.
Di qui il male italiano ossia il consolidamento delle divisioni e il continuo aggiornamento dei furori ideologici, che hanno tormentato la storia italiana a partire dal 25 luglio 1943. Una ferita che non si può rimarginare senza il recupero delle ragioni del patriottismo liberato dalla suggestione neohegeliana e para-hegeliana, che ha dominato la breve storia degli anni Trenta.

Piero Vassallo

http://www.riscossacristiana.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1399:il-dimenticato-dialogo-di-giacomo-noventa-con-i-protagonisti-dellavanguardia-fascista-di-piero-vassallo&catid=52:-a-cura-di-piero-vassallo&Itemid=123

venerdì 6 gennaio 2012

LA FABULA BELLA (recensione di Renzo Montagnoli)

Fu vera gloria?


“Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. “ Questo dice in tono perentorio uno dei bravi di don Rodrigo al pavido Don Abbondio.
La frase è arcinota, tanto che non è stato difficile farla riemergere dal labirinto della mia memoria, anche perché, quando fu letta e commentata a scuola dall’insegnante, mi venne il sospetto che, per quanto il Manzoni fosse andato a risciacquare i panni in Arno, avesse finito per delineare come autentica lingua italiana, e quindi da essere da tutti utilizzata, quel parlare proprio dei toscani che, nel caso specifico, si estrinseca nell’elisione della i davanti alla h del verbo.
In questo senso le comuni riletture de I promessi sposi sono effettuate o con lo scopo di evidenziare l’aspetto linguistico, oppure di privilegiare quello storico, e, meno frequentemente, con accorta equidistanza, entrambi.
Resta il fatto che mai romanzo italiano ebbe una diffusione come questo e che, per quanto non possa essere considerato popolare, chi più chi meno ne ha avuto sentore, se non altro per il fatto della sua obbligatorietà come testo scolastico.
Però, questa vicenda di un amore ostacolato nella sua realizzazione formale, di questo matrimonio tanto desiderato, ma che per qualcuno non si ha da fare, può essere letta anche in chiave sociologica ed è quel che ha fatto Carlo Bordoni con questo libro che, pur nella sua brevità, riesce a svolgere i propositi in modo esauriente e, cosa non da poco, facilmente comprensibile.
Quel che è particolare è rappresentato dall’occasione che ha indotto l’autore a porre mano a questo lavoro, vale a dire la riduzione televisiva del 1990 del regista Salvatore Nocita, frutto quindi di un mezzo, quello televisivo, capace di porgersi con fini didattici, ma che indubbiamente nasconde, per le potenzialità insite nello stesso, i pericoli di un assoggettamento dello spettatore, di un condizionamento della mente che di per sé finisce con il costituire l’oggetto di altre analisi sociologiche.
Di per sé l’opera è stata esaminata prescindendo dalla qualità intrinseca e considerandola alla stregua di un normale romanzo di consumo e astraendo così dal suo rilevante valore, nonché ignorando la corposa documentazione critica che seguì la sua uscita e che continua ancor oggi.
Il risultato di queste scelte, di quest’occhio attento più alle implicazioni sociologiche che al contesto letterario, è sbalorditivo, perché appare un romanzo totalmente nuovo, senza che con questo il giudizio sulla sua valenza venga sminuito, anche se, a ben guardare, risulta, sia pur di poco, ridimensionato.
Quella di Bordoni è una rilettura, insomma, fuori dai canoni e che evidenzia la trascurabile personalità dei due protagonisti principali, Lucia ligia al senso del suo onore femminile, abbastanza scialba, e Renzo, quasi un sempliciotto pronto a inalberarsi di fronte a un ostacolo, ma lesto a rimettere il capo sotto le ali.
Assume invece un rilievo particolare la figura di Gertrude, la monaca di Monza, esistita veramente e non quindi frutto di fantasia, la cui presenza nell’opera manzoniana può sembrare eccessiva in funzione della struttura e della trama della narrazione. Anche in questo caso avevo colto da studente l’anomalia, in un romanzo quasi matematico dall’apparire alla lunga freddo. Che il Manzoni avesse avuto pietà della triste vicenda di questa donna costretta per volere paterno in convento dove si risvegliò poi una passione, normale in altri luoghi, invereconda fra le mura di una casa di Dio? Molto probabilmente non fu così, perché l’autore, nel dare risalto agli aspetti negativi di una donna che in pratica cercò di ribellarsi alla sua condizione, intese invece in tal modo, e in contrapposizione, esaltare la fermezza di propositi di Lucia Mondella, però secondo un concetto di donna vista nei ristretti limiti di una mentalità che la considerava una costola dell’uomo.
Personalmente riconosco meriti al romanzo che tuttavia presenta luci e ombre, e non sempre le prime sono tali da far dimenticare le seconde, ma d’altra parte l’aria paternalistica di cui il testo è impregnato risente della posizione sociale dell’autore, un conservatore pio, pietoso anche, ma non di certo disposto a cambiare l’ordine gerarchico dell’umanità.
Ecco, il Manzoni cattolico, ligio alla conservazione, emerge in modo chiaro e non è difficile ipotizzare che l’uso del testo nelle scuole non fosse solo finalizzato allo studio della lingua italiana, ma costituisse un esempio-monito di ciò che le classi meno privilegiate dell’epoca dovessero aspettarsi, in una invariabilità dello status quo a tutto beneficio di chi deteneva il potere.
Bordoni riesce a cogliere nei personaggi le sfumature generalmente ignorate nella didattica e li rende meno astratti e più veritieri, così come anche alcuni opportuni rilievi circa l’inquadramento del periodo storico nell’opera manzoniana riportano il romanzo a una maggiore aderenza a realtà prima un po’ offuscate dalla fantasia.
Insomma, senza che per questo I promessi sposi diventino un’opera da gettare – e credo che non pochi studenti lo desidererebbero – quel che esce da La fabula bella è una più razionale valutazione di un romanzo dalle indubitabili qualità, ma non il capolavoro assoluto, giudizio che in epoca scolastica ci è stato surrettiziamente imposto.
Il libro di Bordoni è quindi senz’altro da leggere, magari con accanto un’edizione dei Promessi Sposi.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=9418

martedì 1 febbraio 2011

Presentazione: LA VITA È RICORDARSI (Roma, venerdì 4 febbraio 2011)


Libreria Colibrì
Via dei Latini n. 32 (San Lorenzo)
R O M A
Venerdì 4 febbraio 2011, ore 21,30
Presentazione del libro di
Andrea Barbetti - Giuseppe Grasso - Silvia Peronaci

LA VITA È RICORDARSI

Note su una poesia di Sandro Penna
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-83-6]
Pagg. 72 - € 7,00

martedì 25 gennaio 2011

LE SCARPE DI HEIDEGGER: recensione di Renzo Montagnoli

Le scarpe di Van Gogh

Ritengo opportuna una premessa: in questo interessante saggio di Bordoni non si parla delle calzature del filosofo tedesco, perché in fondo a nessuno può interessare di che tipo e misura fossero, bensì si disserta sulla diatriba intervenuta, a seguito della pubblicazione del libro L’origine dell’opera d’arte dello stesso Heidegger, con lo storico dell’arte ed esperto nella pittura di Van Gogh Meyer Shapiro e con il filosofo francese Jacques Derrida.
Le scarpe in questione, in verità, sono quelle che compaiono in numerosi quadri del grande pittore olandese e che attrassero l’attenzione del filosofo tedesco.
In buona sostanza, nel suo saggio L’origine dell’opera d’arte, pubblicato nel 1950 ed elaborazione di una conferenza tenuta a Friburgo nel 1935, si dice che nell’origine di qualsiasi prodotto artistico consiste la sua essenza, vale a dire che l’essenza è ciò da cui e per cui una cosa è quel che è ed è come effettivamente è. Da questa constatazione deriva che è l’artista l’origine dell’opera, anche se contemporaneamente l’opera è origine dell’artista, in quanto, realizzandola, egli diventa un’artista.
Questa deduzione impone però un’altra deduzione e che cioè la comune origine dell’artista e dell’opera d’arte sia l’arte, il che fa sorgere il problema di definire l’arte, cioè di determinare la sua essenza. Poiché un concetto deduttivo imporrebbe che il concetto di arte esisterebbe prima e in modo indipendente dell’opera d’arte stessa, mentre quello induttivo riveniente dall’analisi diretta di alcune opere d’arte significherebbe ammettere di essere già in possesso di quel concetto di arte che si tende a definire, si rende necessario procedere all’analisi di una precisa opera, onde constatare o meno se in essa sia presente l’elemento artistico.
Ed è qui che entrano in gioco le scarpe dipinte da Van Gogh, scarpe da contadina, e il pittore olandese ha il pregio di averci fatto conoscere che cosa veramente esse siano, cioè un semplice mezzo usato per meglio camminare.
Tale posizione è contrastata da Shapiro che è dell’opinione che quelle siano le calzature usate da Van Gogh, precisando che se anche fossero state scarpe da contadina egli le avrebbe dipinte con l’intento di eseguire un parziale autoritratto, dal che ne discende un concetto di soggettività dell’arte opposto all’oggettività di Heidegger e cioè con l’opera si concretizza la piena soggettività dell’artista e quindi il soggetto del quadro, le scarpe per intenderci, sono l’espressione della individuale personalità dell’artista.
Nella diatriba intervenne poi Derrida, pure lui in netta contrapposizione a Heidegger e quindi, pur se in altro modo, sostenendo la piena soggettività dell’artista.
Le scarpe di Heidegger non è certo un saggio facile, perché non è difficile perdersi nei meandri del pensiero di Heidegger, mentre quelli di Shapiro e di Derida sono assai più accessibili, anche perché concreti, ma va dato merito a Carlo Bordoni di essere riuscito a riepilogare una contesa che infiammò gli animi dei filosofi e degli artisti, secondo un preciso filo logico che riesce a mantenere dall’inizio alla fine, una sorta di corda di sicurezza a cui il lettore può tenersi agganciato nel procedere in una lettura appassionante, sia pur così complessa.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=7809

giovedì 25 novembre 2010

Morire altrimenti: Recensione di Ettore Brocca (Mangialibri.com)


Pensare la morte è davvero inevitabile? La cogitazione cartesiana orientava l’intera riflessione filosofica alla cosiddetta meditatio mortis. Buona parte della tradizione novecentesca ha tutto sommato ammodernato i propri strumenti speculativi, eppure poco è cambiato dalle tormentate meditazioni seicentesche. La filosofia dunque dovrebbe assumersi ancora una volta, a differenza delle scienze, l’oneroso impegno di ricostruire e analizzare l’estremo limite dell’esistente. La certezza è chiara: non possiamo non morire. La possibilità è pertanto negata e a fortiori è necessario morire. La necessità e l’inevitabilità della morte sussumono la chiave di lettura per tracciare una mappa delle grandi domande dell’Esistenza, domande che nella visione foucaltiana non sono altro che un enorme compendio alla forma dialogica della tradizione classica, per non dire platonica. Ricorrono perciò le parole di un regista, filosofo minore, Wim Wenders, il quale ne Il cielo sopra Berlino riassume la domanda del non essere più o dell’essere stato (p. 52): «Come può essere che io, che sono io, non c’ero prima di diventare, e che una volta io, che sono io, non sarò quello che sono?». E come dimenticare l’apporto che la de-finizione, perciò mai raggiunta, di nulla ha permesso di com-prendere e riflettere la condizione di ciò che non è più? Il ruolo di leva del suicidio è qui chiarissimo, intraprendere il superamento del limite per guardare aldilà di ciò che per definizione non può essere guardato. Naturalizzare il suicidio, nella sua estrema sintesi, è un osservare il tentativo di superare il limite della morte per giungere a una verità necessaria: quella di non essere più...
Il saggio di Corrado è decisamente audace in quanto tenta di conciliare il gioco della filosofia con l’adulta - e perciò non più giocosa - riflessione sulla morte. In questo senso, la filosofia che mette in campo non intende giustificare lo status quo, fatto proprio da presunte filosofie positive logicizzanti e dunque dogmaticamente negative, ma vuole affrontare seriamente il problema dell’estremo limite ponendo l’accento su quell’altrimenti del titolo: «Stante la validità della protensione differenziale dell’avverbio “altrimenti”, questa si estenderebbe idealmente fino a sospendere l’indefettibilità assoluta della morte, qui non a caso virata nell’infinito morire». Un punto di forza notevole dell’intera riflessione di Corrado è questa sensazione di incomprensibile che le riflessioni sulla morte portano con sé, presagio urtante per un interlocutore poco avvezzo all’idioletto filosofico. Per il lettore dovrà essere chiaro che la ragione può poco di fronte a quest’inevitabile così ben descritto. L’unica ragione, sostantivata e pertanto non positiva, sarà quella di fornire almeno un interrogativo a un problema radicale: saremo ancora noi, quando non saremo più?

Ettore Brocca

http://www.mangialibri.com/node/7354

lunedì 9 agosto 2010

LA FOLLIA IN SCENA: recensione di Rosa Aimoni

Il saggio di Gianluca Corrado “La follia in scena” descrive il rapporto tra la normalità e la follia esaminando l’opinione di vari e rinomati pensatori al riguardo, come ad esempio Foucault e Derrida.
L’esclusione del folle da parte della società avviene su due fronti: quando essa lo respinge perché egli non è in grado di capire le norme della maggioranza, e quando non permette al folle stesso di comprendere il linguaggio astratto e metaforico che si formalizza in arte. Arte che peraltro vorrebbe simulare la follia, ma che da essa profondamente si discosta; è proprio per questo il suo significato astratto è precluso al folle. E c’è una differenza di fondo tra l’arte e la follia, entrambe espressioni di qualcosa che differisce dai principi comunemente accettati: l’arte, pur discostandosi dalle norme sociali, viene presto inglobata in esse e subito collocata nel contesto della maggioranza. L’arte è manifestazione consentita di ciò che è difforme rispetto alla normalità, ma viene presto ricondotta in essa perché palesa un significato che si pone in antitesi rispetto alla norma condivisa, un’ antitesi che però presuppone necessariamente una base comune con essa, pur nella diversità. Alla “follia del folle” manca invece il significato, la ragione diversa ma basata pure sul sentire comune, che permette un confronto con la normalità.
Questo saggio di Gianluca Corrado evidenza le differenze, usando i termini della dialettica hegeliana, tra follia, l’arte e la normalità. Ma allora qual è la differenza tra arte e follia? L’estetica si spinge veramente oltre, fino a condividere con la follia la sua infondatezza rispetto alle norme sociali condivise? O forse è proprio simulando la follia, entro la convinzione che tutto possa essere relativizzato, che l’artista si discosta dalla follia stessa? E ancora, l’arte contemporanea è veramente in grado di mettere in discussione l’apparato di norme socialmente condiviso? Proprio su questi e altri interrogativi il saggio di Corrado si spinge con approfondite argomentazioni, senza omettere di porgere dubbi che stimolano inevitabilmente il lettore alla riflessone, regalando allo stesso un notevole arricchimento culturale sulla materia.

Rosa Aimoni

http://www.sololibri.net/La-follia-in-scena-di-Gianluca.html

venerdì 23 luglio 2010

La follia in scena: RECENSIONE di Rosa Aimoni

Il saggio di Gianluca Corrado “La follia in scena” descrive il rapporto tra la normalità e la follia esaminando l’opinione di vari e rinomati pensatori al riguardo, come ad esempio Foucault e Derrida.



L’esclusione del folle da parte della società avviene su due fronti: quando essa lo respinge perché egli non è in grado di capire le norme della maggioranza, e quando non permette al folle stesso di comprendere il linguaggio astratto e metaforico che si formalizza in arte. Arte che peraltro vorrebbe simulare la follia, ma che da essa profondamente si discosta; è proprio per questo il suo significato astratto è precluso al folle. E c’è una differenza di fondo tra l’arte e la follia, entrambe espressioni di qualcosa che differisce dai principi comunemente accettati: l’arte, pur discostandosi dalle norme sociali, viene presto inglobata in esse e subito collocata nel contesto della maggioranza. L’arte è manifestazione consentita di ciò che è difforme rispetto alla normalità, ma viene presto ricondotta in essa perché palesa un significato che si pone in antitesi rispetto alla norma condivisa, un’ antitesi che però presuppone necessariamente una base comune con essa, pur nella diversità. Alla “follia del folle” manca invece il significato, la ragione diversa ma basata pure sul sentire comune, che permette un confronto con la normalità.



Questo saggio di Gianluca Corrado evidenza le differenze, usando i termini della dialettica hegeliana, tra follia, l’arte e la normalità. Ma allora qual è la differenza tra arte e follia? L’estetica si spinge veramente oltre, fino a condividere con la follia la sua infondatezza rispetto alle norme sociali condivise? O forse è proprio simulando la follia, entro la convinzione che tutto possa essere relativizzato, che l’artista si discosta dalla follia stessa? E ancora, l’arte contemporanea è veramente in grado di mettere in discussione l’apparato di norme socialmente condiviso? Proprio su questi e altri interrogativi il saggio di Corrado si spinge con approfondite argomentazioni, senza omettere di porgere dubbi che stimolano inevitabilmente il lettore alla riflessone, regalando allo stesso un notevole arricchimento culturale sulla materia.



Rosa Aimoni



http://www.sololibri.net/La-follia-in-scena-di-Gianluca.html







giovedì 27 maggio 2010

Anteprima: MORIRE ALTRIMENTI di Gianluca Corrado

Gianluca Corrado
Morire altrimenti
Riflessioni filosofiche


Ammesso e non concesso che ciascuno di noi debba morire – generalizzazione “induttiva” che secondo rigore logico è provocatoriamente relativizzabile –, in ogni caso si può cercare di morire in maniera differente: al di qua delle prospettive d’immortalità dell’anima e di resurrezione (o reincarnazione) dogmatizzate dalle religioni, e al di là della certezza del nulla postumo manifestata da un diffuso razionalismo.
Per tentare di “morire altrimenti” bisogna accogliere la morte come intrinsecamente inaccertabile e inesauribile, dato che si situa oltre il confine delle facoltà di verifica naturale. Ma a questa sospensione di giudizio la cultura odierna anche laica si mostra sempre più refrattaria, riducendo l’essere all’esistere, fondando tutto sulla tecnica dell’uomo artefice e controllore, quindi tendendo a rimuovere quell’evento di annientamento assoluto che su tali premesse la morte rappresenta.
Intessuta in particolare delle riflessioni di Heidegger, Sartre, Jankélévitch, Foucault e soffermandosi pure sul suicidio, la configurazione che si profila in questo libro accetta l’ignoto della morte. Ecco perché né si rassegna all’idea che dopo sia necessariamente il nulla, né si adagia sull’idea di un sicuro aldilà ancora a immagine e somiglianza dell’uomo naturale.


Gianluca Corrado è nato a Viareggio nel 1968. Laureato in filosofia, lavora nell’editoria e si occupa di pensiero psicotico presso Servizi Ascot di Firenze. Collabora con “Estetica”, “Iride”, “Il Ponte”, “La questione Romantica”, “Cultura tedesca” e altre riviste. Con Solfanelli ha pubblicato La follia in scena (2008); Il folle e la società. Il dibattito tra Foucault e Chomsky (2009).

martedì 12 gennaio 2010

Novità: LA VITA È RICORDARSI

«La vita… è ricordarsi di un risveglio» è il celebre incipit della raccolta poetica del 1939 con il quale viene spesso identificata la poesia epigrammatica di Sandro Penna. Questo studio a tre è un esercizio di esegesi del suo nume poetico. Se l’espressione lirica implica soggettivazione, la sua interpretazione tende invece ad un certo grado di oggettivazione. Prima viene la creazione, poi l’ascolto e la lettura.
Il poeta è colui che interloquisce col nulla e lo trascrive; l’esegeta, più concretamente, dialoga con la materia poetica servitagli dall’artista. Valéry ha spesso ribadito che i versi hanno il senso che dà loro il lettore. Non è difficile, però, scadere nella mistificazione quando il testo diventa pretesto.
Gli autori, interpreti attenti e rispettosi, non sono incappati in questa trappola; possiedono sensibilità da non trasformare i versi in questione nel feticcio di una gratuita ermeneutica e la “pratica” filosofica operata sul componimento dà una coloritura inedita al libro.
La dovizia dei rimandi bibliografici fa inoltre di questo lavoro testuale un valido apporto alla critica su Penna, il quale, incurante delle mode e pur avendo conosciuto feconde stagioni di rilettura, rimane in fondo, dal pubblico, più amato che studiato. Queste pagine, corredate di due scritti del poeta perugino, intendono contribuire, nel loro piccolo, a tale riparazione.


Andrea Barbetti - Giuseppe Grasso - Silvia Peronaci
LA VITA È RICORDARSI
Note su una poesia di Sandro Penna

Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-83-6]
Pagg. 72 - € 7,00

martedì 1 dicembre 2009

RECENSIONE di Rosa Aimoni a IL FOLLE E LA SOCIETÀ

Questo saggio vuole esporre al lettore due visioni completamente diverse del modo di vedere la cosiddetta follia o malattia mentale. Il tema è più che mai attuale; molto spesso, infatti, si discute sull’essenza stessa della malattia mentale, sull’opportunità di assoggettare il paziente a trattamento sanitario obbligatorio, sulla necessità di prescrivere psicofarmaci.

Il libro espone con coerenza due dottrine agli antipodi mettendone in evidenza per ciascuna i limiti: quella di Foucault che sostiene, considerando ogni intervento sul malato illecito, che la follia debba essere intesa non come devianza ma come differenza rispetto alla presunta normalità; quella di Chomsky che invece afferma che i fondamenti della natura umana abbiano carattere universale e che ogni deviazione dalla norma debba essere considerata anomala e quindi curata.

Il saggio di Corrado è un libro da leggere, non solo perché espone con chiarezza il dibattito, ancora attuale, tra i due famosi intellettuali del recente passato, ma anche perché la conclusione a cui perviene l’autore può essere utile sia all’ammalato o “Altro” sia alla sedicente normalità, che deve considerare il confronto con il diverso come un momento di crescita.

Alle due differenti visioni di Foucault e Chomsky, l’autore risponde proponendo una soluzione conciliativa che, se da un lato accetta di mettere in discussione la normalità, dall’altro tenta di intervenire sulla follia proprio per evitare al malato una vita di solitudine e al contempo avvantaggiare il suo dialogo con la maggioranza sociale.

Il libro di Corrado fornisce anche un utile arricchimento culturale perché vengono tratteggiati i diversi modi in cui la follia è stata vista nel corso della storia e le idee di altri grandi pensatori. Il saggio garantisce, inoltre, l’apprendimento di qualcosa di diverso: la nuova teoria che l’autore, con la sua consapevolezza ed esperienza, propone al lettore con l’obiettivo, di certo raggiunto, di superare i limiti delle precedenti.

Rosa Aimoni

http://www.sololibri.net/Il-folle-e-la-societa-di-Gianluca.html

giovedì 1 ottobre 2009

Novità: IL FOLLE E LA SOCIETÀ

Pochissimi filosofi come Michel Foucault hanno visto nel folle non un malato mentale, quanto il depositario di una differente accezione del senso e della libertà, titolato ad autodeterminarsi nella propria originarietà.
Tuttavia sino a che punto, nei fatti, questa meritoria posizione accredita al pazzo un’inviolata autonomia e piuttosto non lo rinserra in un isolamento dalla compagine sociale e dai suoi scambi, che in buona parte prevedono norme da condividere e ordini a cui conformarsi?
Nel ripercorrere lo sfaccettato confronto del 1971 tra Foucault e il linguista Noam Chomsky, per il quale la pazzia è un’alterazione della natura mentale anzitutto da curare e da assistere, il presente volume perviene all’esigenza pratica di una sintesi delle due visioni: trattare il pazzo non soltanto come un paziente, ma pure come un’occasione per la cosiddetta normalità d’interrogarsi sui luoghi comuni del proprio “benessere”, contestualmente evitando però che la differenza del folle sia esasperata in una diversità che non si aiuta – anche mediante la terapia – a entrare in dialogo con la maggioranza sociale.

Gianluca Corrado, nato a Viareggio nel 1968, è laureato in filosofia. Membro del comitato di redazione della rivista “La questione Romantica”, lavora nell’editoria e si occupa di pensiero psicotico presso Servizi Ascot di Firenze e l’associazione ALI – Autonomia Lavoro Integrazione.
Per volumi collettanei e riviste ha scritto saggi di ermeneutica e di estetica. Con Solfanelli, nel 2008, ha pubblicato La follia in scena.


Gianluca Corrado
IL FOLLE E LA SOCIETÀ
Il dibattito tra Foucault e Chomsky
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-65-2]
Pagg. 136 - € 9,00

http://www.edizionisolfanelli.it/ilfolleelasocieta.htm

venerdì 7 agosto 2009

PERCORSI TRA ARTE E CINEMA IN ITALIA

Le avventure delle immagini
Percorsi tra arte e cinema in Italia
di Francesco Galluzzi
ed. Solfanelli, pagg.117, 2009
Recensione di Ninni Radicini in
http://www.tuttoitalia.ch/tuttoitalia/news.asp?IDNotizia=11745

lunedì 6 luglio 2009

LE AVVENTURE DELLE IMMAGINI: recensione di Ninni Radicini

L'immagine del mondo classico nella cinematografia italiana ha caratterizzato la produzione e il dibattito critico fin dall'inizio dell'industria della riproducibilità delle immagini in movimento, sulla scia delle novità apportate dalle avanguardie nelle arti visive tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e della rilevanza assunta nello stesso periodo dall'archeologia come ricerca delle origini e riappropriazione della Storia, in funzione della formazione della identità nazionale. L'ambientazione greco-romana è stata una delle prime ad essere utilizzata: nel 1898 Georges Melies girava Pygmalion et Galathèe. Come dimostrato da Cabiria (regia di Giovanni Pastrone, 1914) - primo kolossal italiano a cui collaborarono anche D'Annunzio e Salgari -, le ricostruzioni storiche furono soggette a due forze non sempre convergenti: l'accuratezza filologica e la spettacolarizzazione della messinscena.
La questione del rapporto tra realtà storica e trasposizione cinematografica non fu però circoscritta alle produzioni italiane e ancora nel 1927 la rivista inglese "Close up" pubblicava un articolo di Hilda Doolittle, a sostegno di una linea di essenzialità, di "purezza", in alternativa allo stile di Griffith e DeMille. All'inizio non tutte le avanguardie artistiche credettero alle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Tra gli scettici, a sorpresa, vi erano i futuristi, seppure si trattò di una circostanza di brevissima durata. Virgilio Marchi, architetto proveniente dal movimento ideato da Marinetti, diventò uno dei più grandi scenografi del cinema italiano (es. La corona di ferro) e la partecipazione degli artisti fu tale da determinare la nascita di un genere "futurista", uno dei tre su cui si resse la produzione italiana dei primi due decenni del Novecento: il terzo in ordine di rilevanza, dopo quello storico e quello realista.
La partecipazione di pittori, architetti, scultori al lavoro di registi, sceneggiatori, attori, a cominciare da quelli estranei alle avanguardie, fu determinante per lo sviluppo della cinematografia, poiché al di là di ogni dibattito teorico intesero il cinema come occasione di applicazione della propria creatività. A metà degli anni Venti l'insuccesso di Gli ultimi giorni di Pompei di Carmine Gallone e Amleto Palermi determina una crisi del genere storico-archeologico. Un decennio, Gallone lo riprende dirigendo Scipione l'Africano, premiato poi al Festival del Cinema di Venezia del 1937. Nella rappresentazione imperiale di colui che sconfisse Annibale, l'accuratezza nella ricostruzione dell'antica Roma è accompagnata dall'anacronismo dei titoli di testa, che scorrono sui "rilievi traianei" con chiari intenti propagandistici.
Nel 1947, un nuovo tentativo fu compiuto da Alessandro Blasetti con Fabiola. Nella narrazione della vicenda della conversione al cristianesimo della patrizia romana, il regista utilizzò sia i parametri già consolidati nei decenni precedenti per gli ambienti romani, sia quelli del neorealismo per le parti relative alla comunità cristiana. La ripresa avvenne nel decennio seguente sulla scia del successo popolare delle produzioni americane girate in Italia (Cleopatra, Ben Hur) e italo-americane (Ulisse di Mario Camerini, con Kirk Douglas). Cinecittà diventa la "Hollywood sul Tevere" ma soprattutto la conseguente disponibilità di costumi e scenografie invoglia i produttori italiani a utilizzare in modo pragmatico e geniale questa congiuntura. Fu l'inizio di un nuovo genere - il peplum - che riprendeva alcune delle caratteristiche di quello d'inizio secolo (es. la narrazione) ma si dimostrò innovativo in virtù della provenienza culturale e professionale dei nuovi registi.
Molti dei loro, oggi considerati autori di culto su scala internazionale, provenivano da esperienze nell'ambito delle arti visive e della fotografia, da cui una caratterizzazione di questa nuova era del film storico-mitologico non tanto per la plausibilità della ricostruzione storica quanto per le elaborazioni visive innovative, derivate dalla letteratura e dalle nuove correnti artistiche. A parte qualche esempio di ricerca di verosimiglianza storica (es. Ercole alla conquista di Atlantide, regia di Vittorio Cottafavi, 1961), già la prima pellicola peplum, Le fatiche di Ercole (1958, regia di Pietro Francisci) reinterpreta la Grecia classica, attraverso Hölderlin, Nietzsche, e il rapporto freudiano tra mitologia e psiche.
Nel celeberrimo Maciste all'Inferno (1962), il regista Riccardo Freda ambienta la trama nella Scozia del XVII secolo, facendo scendere il protagonista negli abissi terrestri per combattere contro figure rievocanti la mitologica greca in scenari tipici della pittura di Bosch. Mario Bava in Ercole al centro della Terra (1961) utilizza effetti psichedelici. Questi però non sono anacronismi né tantomeno errori; sono invece contaminazioni storico-culturali finalizzate alla realizzazione di un prodotto in linea con le nuove istanze artistiche della società dei consumi degli anni Sessanta e dell'affermazione dei nuovi mass media, prima tra tutti la televisione.
Negli anni tra l'Ottocento e il Novecento le arti plastiche attraversano una ridefinizione profonda e l'avvento del cinema avvia un rapporto paritario che farà evolvere entrambi, ancora più di avvenuto con l'invenzione della fotografia. Alcuni artisti, tra cui Kandinsky e Malevic, ipotizzarono la realizzazione di film e Kahnweiler prevedeva una evoluzione del Cubismo nel cinema di animazione. Intanto in tema di utilizzo del cinema come mezzo di comunicazione per costruire e rafforzare l'identità nazionale, dopo il genere storico-archeologico, che richiamava i fasti imperiali romani, si afferma una nuova linea narrativa incentrata sul periodo del Risorgimento, allora anche culturalmente più vicino: il conteso storico, la letteratura e la pittura dell'Ottocento. A volte con articolazioni sorprendenti.
In Malombra (1942), Mario Soldati fa riferimento al dipinto Isola dei morti di Böcklin e in 1860 Alessandro Blasetti - il film è del 1934 - utilizza il dialetto in modo non folkloristico, marcandone in modo pressoché esplicito l'essere elemento fondante della cultura popolare italiana. La convergenza tra il realismo nella pittura e nella letteratura (in particolare quella di Verga) e il cinema giunge al culmine, ed a una svolta di interpretativa contemporanea, nel 1943 con Ossessione, di Luchino Visconti. Nello stesso periodo si sosteneva l'opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza - già sperimentata nel cinema francese degli anni 30 - fu Renato Guttuso, i cui dipinti di ambientazione popolare, meridionale, contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo nuovo genere cinematografico italiano postbellico: il Neorealismo.
Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell'immediato secondo dopoguerra, il Neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini). Nel 1954 sarà ancora Luchino Visconti a segnare una ulteriore svolta con Senso, film storico a colori, che recupera il calligrafismo del cinema di rievocazione risorgimentale, da lui stesso consegnato alla storia dopo Ossessione. Ma non si trattò di un ritorno al passato poichè la citazione pittorica e l'impianto letterario furono orientati a una lettura critica, come lo sarà poi Il Gattopardo.
In questo stesso periodo un certo numero di artisti scelgono di entrare in modo diretto nell'ambito cinematografico. I fondatori di Forma 1 frequentano il Centro Sperimentale e uno di loro, Mino Guerrini, diventerà regista, girando varie pellicole tra gli anni '60 e '80. La stessa figura dell'artista diventa caratteristica della società italiana al punto da essere rappresentata in vari film (es. Le amiche, 1955; Roma ore 11, 1952). Nella scelta dei paesaggi in due decenni si passa dalla prevalenza degli scenari periferici (neorealismo) al patrimonio artistico in versione cartolina (neorealismo rosa) all'inquadratura dell'opera arte a sostegno delle scelte stilistiche del regista. Tra coloro che si ritiene abbia ottenuto i migliori risultati nella composizione tra inquadratura dell'opera e sequenza vi fu Michelangelo Antonioni. Intanto negli anni '60 arriva la Pop Art e il rapporto tra arte e cinema cambia ancora. Mario Bava nel 1968 dirige Diabolik, uno dei migliori esempi di applicazione della nuova corrente. Soprattutto, si afferma la televisione che incide in modo definitivo sul modo si costruire l'immagine e di relazionarla con lo spettatore.
Negli anni Trenta, il documentario d'arte comincia ad acquisire un interesse crescente. Aumentano le produzioni e diventa motivo di una significativa riflessione teorica, sia da parte dei registi, sia da degli storici dell'arte. Del documentario artistico già la cinematografia degli anni Trenta e Quaranta (il Formalismo o Calligrafismo) di Mario Soldati, Renato Castellani e Mario Camerini, aveva fatto propri vari parametri. Negli anni Cinquanta a sostegno di questo genere vi fu la convinzione che la macchina da presa fosse un potenziamento dell'occhio e che il film d'arte potesse essere parte del sistema divulgativo e formativo incentrato sul cinema (e sulla televisione) a beneficio del progresso della società italiana.
Sul rapporto tra macchina da presa e opera d'arte le valutazioni differivano. Ad affermarsi fu lo stile di Luciano Emmer in cui l'opera veniva adattata agli standard cinematografici. Non mancarono gli storici dell'arte passati alla regia, come Carlo Ludovico Ragghianti, che tentò di realizzare una sintesi tra il purovisibilismo viennese e la sua formazione crociana, e Roberto Longhi, una delle personalità più influenti nello sviluppo teorico del cinema degli anni '50 e '60.
Francesco Galluzzi, storico e critico d'arte, docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti di Palermo e di Arte e cinema alla Scuola di specializzazione di Storia dell'arte dell'Università di Siena, già autore di altri saggi, nei tre capitoli di Le avventure delle immagini, descrive il rapporto tra arti visive e cinema in Italia dai primi del Novecento fino agli anni Sessanta (riferimenti anche a produzioni degli anni Settanta e Ottanta), con modalità appropriate sia a lettori già esperti sia a coloro che volessero approfondire lo studio della storia della cinematografia italiana in anni ritenuti tra i più dinamici e innovativi. Da quel contesto storico e teorico è derivata una produzione tuttora di riferimento per registi e operatori del settore, compresi generi e personaggi riscoperti e rivalutati a partire dagli anni Novanta dalla critica e dagli spettatori.

Ninni Radicini

http://www.ninniradicini.it/libri/arte-cinema-italia.htm

giovedì 25 giugno 2009

RECENSIONE di Renzo Montagnoli a ÉMILE ZOLA

Devo ammettere che risulta assai difficile, o addirittura quasi impossibile, scrivere la recensione di un saggio letterario capace di affrontare la figura di uno scrittore come Emile Zola, fondatore del Naturalismo, corrente letteraria che si ispira, come metodologia, a Claude Bernard, grande medico francese, autore dell’Introduzione alla medicina sperimentale.
Precursori di questa concezione, antitetica del romanticismo e che si basa sul fatto che la psicologia dell’uomo debba essere considerata alla stessa stregua di ogni fenomeno naturale e quindi con la stessa evoluzione di causa ed effetto, furono senza dubbio Balzac e Flaubert, ma Zola fu colui che la sviluppò ai massimi livelli.
Del resto nel Saggio su Il romanzo sperimentale che comprende tutti gli scritti teorici pubblicati da Zola nel 1880, lui stesso definisce il romanzo una conseguenza dell’evoluzione scientifica del secolo; esso è, in una parola, la letteratura della nostra età scientifica, come la letteratura classica e romantica corrispondeva a un’età scolastica e di teologia.
Da qui l’osservazione diretta di esseri umani, dei loro comportamenti, delle loro reazioni, dei loro ambienti, indispensabile per scrivere un romanzo.
E infatti le descrizioni sono improntate al più rigoroso realismo, il che se incontrò notevoli favori, però diede luogo anche a reazioni piuttosto accese negli ambienti più conservatori dell’epoca.
Benché da noi più conosciuto per Teresa Raquin, per Nanà, Germinal e La bestia umana, il grosso della sua produzione va ascritto al Ciclo de I Rougon-Macquart, di cui peraltro fanno parte gli ultimi tre dei succitati romanzi.
Si tratta di una serie di opere (una ventina) in cui l’intima connessione tra i protagonisti del gruppo familiare e sociale ivi descritto rende la loro storia esemplare, anzi la vera storia narrata del Secondo Impero Bonapartista.
E qui l’adesione al modello di scienza sperimentale teorizzato da Bernard trova la più completa delle applicazioni nelle azioni, nelle passioni, nei comportamenti dei componenti di questa stirpe, all’origine dei quali vi è un’accertata lesione organica, cioè secondo la moderna terminologia ci sono elementi del codice genetico che finiscono con il condizionare i discendenti, segnandone in pratica l’esistenza.
Con questi presupposti e con lo spietato realismo che induce lo scrittore a osservare con la massima attenzione il comportamento di soggetti reali analoghi ai personaggi della vicenda, è evidente che lo spazio per la creatività si riduce alquanto, finendo con il costituire solo l’ossatura del racconto, il fil rouge intorno al quale gira tutta la storia.
Questo saggio, peraltro facilmente accessibile come esposizione, presenta l’indubbio vantaggio di parlare, in modo coordinato e razionale, di questa continua sperimentazione di Zola, riportando anche brevi brani di alcuni romanzi, giusto per chiarire ulteriormente i concetti.
Quindi sono dell’idea che possa costituire uno strumento indispensabile per lo studioso dell’autore francese e anche una fonte di conoscenza per chi voglia comprendere un periodo storico e una corrente letteraria di rilievo quale fu il Naturalismo.
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=5325

venerdì 5 giugno 2009

LA DISMISURA IMMAGINATA: recensione di Renzo Montagnoli

Per molti è uno sconosciuto, ma è il destino di quasi tutti i precursori e a buon diritto Ernst Theodor Amadeus Hoffmann lo è stato.
Questo geniale ed eclettico tedesco (Konigsberg, 24 gennaio 1776 – Berlino, 25 giugno 1822), oltre a essere stato pittore, compositore, giurista, fu anche uno scrittore, anzi uno dei massimi esponenti di quel movimento artistico, culturale e letterario conosciuto come Sturm und Drang e più universalmente noto, dopo la sua diffusione in tutta l’Europa, come Romanticismo.
La sua visione della realtà finiva letterariamente per essere trasfigurata, in una sorta di esperienza onirica, che finiva con il dar vita, di volta, a prose surreali, fantastiche o grottesche, non di rado in una sovrapposizione di grande effetto.
Vissuto a cavallo di due secoli, in cui storicamente prima avveniva il grande evento della rivoluzione francese e poi la fase grottesca della restaurazione, un’epoca in cui i fondamenti dell’illuminismo finivano con lo sgretolarsi di fronte all’avanzata dell’industrialismo, in questi passaggi Hoffmann riuscì meglio a interpretare l’angoscia, i timori, le speranze di un uomo del suo tempo.
Specchio di se stesso, le sue opere, avveniristiche per l’epoca, finiscono con il tratteggiare una condizione umana dove mistero, realtà e irrealtà, timori latenti e fughe del pensiero si intrecciano, dando vita a spunti che poi saranno ripresi da autori successivi.
Carlo Bordoni, lui stesso autore di narrativa fantastica (il recente Il cuoco di Mussolini, una raffinata e verosimile ucronia), nonché studioso del genere, ha voluto rendere omaggio all’illustre progenitore tedesco con un saggio intitolato La dismisura immaginata – Hoffmann e la letteratura fantastica, un’attenta analisi storico-letteraria della produzione di Hoffmann, con un’interpretazione, condivisibile, di motivazioni, di cause, di effetti e di connessioni del pensiero e dello spirito creativo che giustamente fanno di questo scrittore, vissuto peraltro brevemente, un capostipite di quel genere, da cui poi tanti hanno attinto con risultati forse anche più esaltanti, un genere che ancor oggi sembra essere fra i preferiti e che in una fase di recessione economica ed etica finisce con l’assumere una rilevanza tutta particolare, raccogliendo pulsioni e timori di un presente nell’ottica del futuro.
Preceduto da un’esauriente presentazione di Romolo Runcini il saggio di Bordoni ha il pregio, per niente trascurabile, di offrire una visione completa, perfino sotto il punto di vista psicologico, in poche pagine e, quel che più conta, in modo accessibile anche a chi per la prima volta si accosta alle origini del fantastico.

Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=5223

lunedì 1 giugno 2009

The time is out of joint (Exibart.onpaper n. 57 - giugno-luglio 2009)

Apriamo con la nota citazione shakespeariana poiché, nella sua eco degli Spettri di Marx di Jacques Derrida, inquadra il densissimo lavoro di Marcello Faletra. Punteggiato da puntuali e colti riferimenti alla cultura “filosofica” francese del secondo dopoguerra, il breve saggio riflette sulle Dissonanze del tempo, fornendo al lettore una messe e una massa di Elementi di archeologia - qui il rimando è naturalmente a Foucault - dell’arte contemporanea, come recita il sottotitolo.
Ciò non significa che si tratti d’un libro scritto da un epigono della cultura post-strutturalista. E lo dovrebbe dimostrare, almeno in forma di segnalazione, l’epigrafe posta in apertura, che è firmata T.S. Eliot e si conclude in tal modo: “Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile ”. Nulla di più distante da quanto un Derrida sosteneva, criticando quella “metafisica della presenza” che abiterebbe come un fantasma la filosofia, da qualche secolo a questa parte.
E tuttavia, Faletra non pare proprio ricascare in questo sostanziale vizio di forma. Al contrario, riesce a restare in equilibrio su quel filo sottilissimo che divide (e unisce) denuncia e reazione, filosofia della storia e messianismo, disillusione e sconforto. Più che una terza via, un ammirevole esercizio di funambolismo. Certo, a volerne decostruire rigorosamente il testo e le tesi, qualche falla la si potrebbe trovare. E non solo da un punto di vista eminentemente filosofico, ma pure - per esempio - da quello della critica d’arte, sostenendo magari che gli esempi citati sono pochi e, in qualche caso, non pienamente confacenti all’ipotesi che dovrebbero incarnare.
Il punto è però un altro, ed è un punto di tale fissa inaggirabilità che fa presto dimenticare - qualora si sia in buona fede - le accademiche questioni di lana caprina. Il punto è la confusione fra contemporaneità e cronologia, che Faletra denuncia sin dalla prima pagina. E che, lo ripetiamo, non è solo una questione di filosofia della storia o di storia dell’arte, ma nientemeno che d’“imperialismo culturale ”. In altre parole, non esiste un solo tempo, e perciò non esiste una sola attualità: “Non tutti viviamo nello stesso presente”. E ciò vale ovviamente per il singolo nel rapporto a sé e agli altri e alla società in cui vive; ma soprattutto vale in una logica “comparativa” in senso geografico. È la policronia.
Faletra non fa però opera di caritatevole sensibilizzazione verso le culture altre. Fa ben di più: ricorda, sottolinea, ribadisce - con Nietzsche e Didi-Huberman - che “non c’è cronologia senza anacronismo. In un certo senso l’anacronismo è il rimosso della cronologia”. ttenzione però, non si tratta di un anacronismo inamovibile dalle proprie posizioni: “Separandosi violentemente dalla storia, l’arte della ‘contemporaneità’ si trova a svolgere un ruolo anamnesico. E dal momento che tale separazione dalla storia è irreversibile, l’anamnesi si fa interminabile ”.
Qui sorge il problema. Poiché la postmodernità pare aver sussunto (o poter rapidamente sussumere) ogni forma di straniamento, e dunque pure l’arte, e soprattutto la sua fruizione istantanea (con tutto ciò che il termine ‘istante’ significa nella filosofia della storia di Walter Benjamin, altro riferimento basilare nel libro).
È l’ennesima fine dell’arte di hegeliana memoria? In molti sono tentati di crederlo, magari auspicando che il presunto timore si riveli reale. Ma si deve pur sempre tenere a mente la freudiana interminabilità che si citava poche righe fa; in sostanza, “la fine dell’arte non smette di finire, ma ricomincia sempre”. La domanda è dunque un’altra: il fatto che l’arte sia in-finita è un augurio o una minaccia?

info.
Marcello Faletra - Dissonanze del tempo
Solfanelli, *** 2009
Pagg. 88, 8 euro
ISBN 9788889756553
Info: http://www.edizionisolfanelli.it/

giovedì 21 maggio 2009

DISSONANZE DEL TEMPO; FALETRA AL GOETHE SI INTERROGA SULL' ARTE CONTEMPORANEA



ALLE 18 al Goethe Institut, ai Cantieri della Zisa di via Paolo Gili, si presenta il libro di Marcello Faletra "Le dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell' arte contemporanea", edizioni Solfanelli, 2009, collana Micromegas. Introduce il critico d' arte Sergio Troisi. Seguirà una performance live di Curva Minore a cura di Lelio Giannetto.
Il tema è quello della definizione e rappresentazione dell' arte contemporanea e cerca di rispondere a una domanda: siamo contemporanei dell' immaginario o del reale? Il saggio indaga, archeologicamente, le ambiguità della parola contemporaneo che emergono nei rapporti fra arte, storia e società.
L' autore si chiede di cosa sarebbe contemporanea l' arte? «La dissonanza del tempo - l' anacronismo implicito nella nozione di contemporaneità - costituisce il controtempo di tutta la modernità. Ci sono molti modi di rappresentare il presente. Resta tuttavia significativo il fatto che non tutti vivono lo stesso presente».



lunedì 11 maggio 2009

Presentazione di DISSONANZE DEL TEMPO (Palermo, 31 maggio)

Siamo contemporanei dell’immaginario o del reale? Ci sono molti modi di rappresentare il presente. Resta tuttavia significativo il fatto che non tutti vivono lo stesso presente. Il saggio indaga, archeologicamente, le ambiguità della parola contemporaneo che emergono nei rapporti fra arte, storia e società.


Presentazione del libro

Dissonanze del tempo
Elementi di archeologia dell’arte contemporanea

di Marcello Faletra
Introduzione di Sergio Troisi


21 maggio 2009 - ore 18,00
Goethe-Institut Palermo - Sala Wenders
Cantieri Culturali alla Zisa
via Paolo Gili 4 - Palermo

lunedì 4 maggio 2009

Quale presente mette in gioco l'arte contemporanea? (Arte e Critica n. 101)

Intervista a Marcello Faletra – autore di Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea. Ed. Solfanelli, 2009.
di Francesco Galuzzi (storico dell’arte)


Francesco Galluzzi - Nel tuo libro parli del rapporto fra arte e tempo, anzi nel sottotitolo specifichi che si tratta di un’archeologia dell’arte contemporanea; perché “dissonanze del tempo”?

Marcello Faletra - Con “dissonanze” intendo una determinata circostanza dell’immagine, in cui si coagulano aspetti che difficilmente vengono tradotti nel discorso sull’arte. La dissonanza non è il conflitto in cui uno dice bianco e l’altro nero, piuttosto intendo con questa parola chiave il fatto che pur trovandoci di fronte alla medesima opera non vediamo la stessa cosa. Questo significa in primo luogo che la dissonanza non è l’incomprensione. Circostanza che implica il fatto che due persone non sappiano vicendevolmente quello che dicono. E non è nemmeno il fraintendimento, spesso causato da una terminologia imprecisa. Ma è l’eterogeneità irriducibile delle opere ad un regime di frasi o a un discorso che ne perimetra il significato. E il tempo di un certo presente che si oggettiva nelle opere è una delle condizioni privilegiate dove la dissonanza ha luogo. Perché questo tempo si declina al plurale, e quindi non è assoggettato alla linearità della cronologia. Il saggio prende spunto da questa demarcazione fra cronologia e anacronismo e implicitamente fra monocronia e policronia. Cioè la differenza fra la mera esistenza fattuale delle opere - la loro classificazione in un regime di segni - e la loro affermazione come alterità che inaugura un tempo diverso da quello convenzionale.

FG - Alludi al mercato e al suo potere di stabilire l’ordine del giorno della “contemporaneità”?

MF - Fino a un certo punto. Vi è in effetti una reazione alla logica del mercato, alla moda, all’ufficialità o alla convenzionalità, ma questa reazione non è costitutiva della “dissonanza” di cui parlo. Ciò che ho tentato di indagare si riassume nella domanda: quale presente mettono in gioco le opere? Se paragoniamo cosa intendessero Diderot e Baudelaire per contemporaneità, scopriamo che per il primo essa era legata alla potenza della ragione di far coesistere conoscenza e utilità, mentre per Baudelaire essa era espressione del feticismo della merce, concetto questo che si prolungherà fino ai grandi monumenti pubblici di Cleas Oldenburg, con i suoi Totem, o Rossetti per labbra su trattore cingolato, ecc. Per fare un altro esempio già kandinsky concepiva il presente non più in termini oppositivi – presente vs passato – ma in termini di connessione, di contiguità, e il tratto significativo di questa connessione era rappresentato dalla lettera e. Ma in tutti questi casi ciò che è interessante è il fatto che la contemporaneità è un’invenzione del presente indissociabile dalla volontà con cui lo si immagina. L’uomo moderno per Nietzsche non è colui che va alla scoperta di se stesso, ma colui che inventa se stesso. E questo aspetto non è riducibile ad una mera temporalità cronologica, ma inattuale, intempestiva che sfugge spesso allo sguardo dei “contemporanei”; perchè è come un istante oscuro come lo definì Ernst Bloch.

FG - Come possiamo conoscere questo “istante oscuro”, come tu dici?

MF - Un primo approccio potrebbe essere un attento esame del modo in cui utilizziamo la parola contemporaneo. In che contesto questa parola assume valore. In che modo la significhiamo. Cosa archeologicamente si è inteso e s’intende con questa parola? Per inciso specifico che per archeologia non intendo la tendenza a definire universi di saperi, ma sulla scia di Foucault, solo casi esemplari, particolari che irrompono nel contesto modificandone la fisionomia.

FG – Certo la parola contemporaneo si presta a una infinità di interpretazioni, a volte in conflitto fra loro, ma come avere un approccio estraneo ad un partito preso?

MF - Beh, innanzitutto cercando di capire il ruolo della parola contemporaneo nell’ambito della designazione. Quando diciamo “arte contemporanea” cosa intendiamo dire esattamente? Quando diciamo “questa è arte”, cosa stiamo facendo realmente? E’ chiaro che queste affermazioni fanno ricorso a un referente, a qualcosa che viene designato come arte. L’oggetto designato con il deittico “questa” viene classificato “arte”. Questa operazione risulta indispensabile per individuare quali oggetti o immagini in quel dato momento sono separati dal loro contesto abituale e inseriti in una nuova classificazione. Ora, dal momento che gran parte dell’arte d’oggi si serve di materie, oggetti e immagini già esistenti in altri ambiti che generalmente non sono ritenuti artistici, è evidente che queste non hanno di per sé la capacità di significare. Una sedia di Kosuth o una scopa di Rauschenberg o un giocattolo di Koons di per sé non significano già “arte”. Occorre un passaggio. E questo passaggio ci viene dalla capacità di designare queste cose come oggetti d’arte. Cioè di recuperare il piano cognitivo per comprendere il trasferimento di funzione e di significato. Questa procedura cognitiva esige dunque dei deittici che hanno la funzione di scambiare il significato di una cosa in un’altra. Ora l’espressione “questa è arte”, esplicita o implicita che sia, è proprio uno di questi deittici, come ora, adesso, questo, quella, qui, io, tu, ecc. Questa funzione è importante perché contestualizza lo spettatore nell’ambito di uno spazio-tempo. Non del tempo in cui è localizzata la frase, ma del tempo che l’espressione “questa è arte” segna, e a volte con la sola presenza dell’oggetto, senza il supporto della parola. Nell’ambito di questo problema si possono distinguere designatori rigidi e designatori mobili. I primi sono le date: “l’arte dal 1945 ad oggi”, oppure “l’arte del Novecento”, sono designatori sempre identici che di per sé non stabiliscono e non decidono il significato dell’arte; posto un termine temporale rigido il resto viene inserito all’interno di questa cornice secondo l’appartenenza cronologica. Ma se entriamo all’interno dei processi di significazione vediamo che vi sono designatori mobili o “performativi” come quello che dicevo poco fa e che dipende dall’atto performativo.

FG - E questo è un problema che vale per ogni epoca dell’arte?

MF - No. Perché nel passato l’arte subiva una definizione a priori. Era arte ciò che rientrava entro determinate categorie. Il senso greco della parola arte – techné – era equivalente di abilità. In Omero ha il significato di fabbricare, produrre, costruire. Un fare efficace, adeguato in generale. Platone nel suo Timeo parlerà di technitès (il demiurgo), cio che oggi con un significato molto diverso chiamiamo artigiano. I romani, invece, impiegavano la parola ars, riferita essenzialmente alla qualità. Nel medioevo, nelle prime università, si parlerà di ars al plurale, come arti liberali, perché competono solo a un uomo libero, non soggetto al lavoro. Le arti liberali si chiamano arti perché sono la maniera di far diventare liberi gli esseri umani. Alle arti liberali si oppongono le arti meccaniche (trovare il mezzo per…le macchine sono varianti della leva). E’ soltanto con la società basata sullo scambio mercantile che noi avremo ciò che tutt’ora si chiama “opera”. Un prodotto dell’azione umana. Ma già Balzac osservava che “noi non abbiamo più delle opere, non abbiamo che dei prodotti”. Abilità, qualità, erano condizioni poste dalla trasformazione di una materia in una forma. Ma oggi le cose sono ben diverse. Si potrebbe dire che la materia prima dell’arte sia lo spettacolo. Se questa ipotesi fosse vera, si giustificherebbe il fatto che oggi non conta più saper fare qualcosa, ma saper apparire. Questa è la differenza radicale fra Bill Viola e Jeff Koons. Pur appertenendo alla stessa epoca, tuttavia sono cosi distanti l’uno dall’altro…Il primo cerca di essere “contemporaneo” di un saper fare - l’arte del video - che lo proietta a fianco di un Pontormo o di un Masolino da Panicale. Il secondo invece ratifica la contemporaneità dello spettacolo. Ciò che li divide è dunque la materia dell’arte. Per il primo è la storia, per il secondo è il banale tipico dell’universo disneylandiano.

FG - Da questo punto di vista pensi che ci sia una crisi dell’arte contemporanea?

MF – In un certo senso l’arte è per sua natura sempre espressione di una crisi, se si intende con questa parola un processo che porta da uno stato a un altro. La crisi è l’avventura dell’arte nel senso che è un passaggio al limite dell’immagine. Questo passaggio al limite è il presente puro, non ancora incorniciato nel tempo cronologico. Solo che l’idea di crisi generalmente adottata è quella che ci viene dalla medicina che segna il rapporto fra la vita e la morte. Se per crisi intendiamo quest’ultimo aspetto non credo ad una crisi dell’arte.
Il paradigma medico implica l’idea di fine dell’arte – l’ultimo paragrafo del mio libro parla appunto di “illusione della fine dell’arte”; ma l’idea di crisi se si guarda bene è costitutiva di tutta l’arte della modernità con i suoi continui rivolgimenti, ed è connaturata all’ordine capitalista della nostra società. Prima ancora che con le idee l’arte cambia attraverso le materie che utilizza. Il fatto che molti artisti sono irreggimentati nell’universo del banale non significa che vi sia una crisi dell’arte, come se questa fosse un corpo organico e chiuso. Che nelle manifestazioni artistiche vi si espongono anche delle sciocchezze non significa che vi sia crisi dell’arte, semmai è il sintomo di povertà del curatore o dell’artista…Piuttosto in un universo aleatorio dei valori estetici ciò che è in crisi, nel senso medico, è proprio la definizione dell’arte, condizione questa che già era stata diagnosticata agli inizi degli anni Settanta dal critico americano Harold Rosenberg, parlando di “S-definizione” dell’arte. Dieci anni dopo lo storico dell’arte Hans Belting parlerà di “fine della storia dell’arte”, alludendo alla libertà dell’arte di fronte alle rigide cornici formalistiche e cronologiche.

FG - Nel tuo libro la nozione di presente svolge un ruolo fondamentale; cosa significa costruire un presente nell’arte?

MF – Molte opere del secolo scorso sono interamente coinvolte nel creare un presente. Non alludono a nessuna posterità. Non c’è nulla da aspettare. E dal momento che il presente vive di una certa fragilità occorre affermarlo. La singolarità dell’opera…ma sarebbe più esatta parlare dell’evento, è il suo affermarsi come attualità. Da qualche parte Deleuze ha osservato che l’attuale non è ciò che siamo, ma ciò che diveniamo. E’ in questo divenire che l’arte è un atto di resistenza contro le formule che la riducono a una sterile citazione. Per questo in un certo senso oggi il presente stenta ad affermarsi. Ci sono molti artisti che vanno avanti sulla scorta degli artisti del passato e anche del recente passato. Le avanguardie del Novecento dicevano “noi cominciamo”, mentre molti artisti oggi – non tutti naturalmente - dicono “noi citiamo”. Questo aspetto è ciò che Hans Belting ha chiamato lo “storicismo dell’arte contemporanea”.

FG - Ciò che è in gioco quindi sarebbe il rapporto fra passato e presente e il modo in cui questo rapporto si oggettiva nelle opere?

MF – Anche se esprime la più assoluta individualità, l’arte è pur sempre inscritta in un presente storico, sovracodificato da segni e immagini del passato e dai rumori del presente, ed è impossibile fare a meno di questo aspetto. Quanto presente riusciamo a costruire e quanto ce ne sfugge? Quanto passato lavora sul presente e quanto si è volatilizzato? Il sottotitolo “archeologia del presente”, allude proprio a questo. Come ha ricordato Deleuze in una intervista l’archeologia è sempre al presente. Perchè l’archeologia si situa al margine tra il visibile e l’invisibile. Rende visibile qualcosa, un frammento, un dettaglio significativo, che era stato rimosso o obliato. E’ per questo che essa si coniuga solo al presente. Nietzsche ad esempio rilancia Dioniso e la tragedia greca obliati dall’ideale apollineo. Mallarmé fa del caso non più il disordine ma il molteplice della creazione letteraria…In altre parole la policronia si afferma contro la monocronia. E’ questa l’inattualità di cui parlo nel libro.

FG - In che senso si effettuerebbe questa inattualità in certe opere?

MF - Parto dal presupposto che ogni “opera” – ma oggi possiamo ancora parlare di “opere”? – sia un evento - qualcosa che modifica qualcos’altro: la percezione delle cose. Il problema allora diventa: tutto ciò che vediamo in una manifestazione artistica, in un museo d’arte contemporanea o in qualsiasi altro luogo dove vi si espone dell’“arte”, è davvero un evento? Da questo punto di vista ormai non possiamo non ignorare quanto la parola entertainement sia diventata costitutiva della definizione “culturale” dell’arte. Perché, in effetti, tutto può essere “entertainement”, anche un disastro o un assassinio o un tentativo suicidio, come i suicidi sempre rinviati dell’artista spagnolo Nebreda. E’ in questa logica che vanno lette alcune tra le più clamorose – in quanto ultrapubblicizzate - pseudo trasgressioni dell’arte d’oggi. Detto drasticamente l’arte o c’è o non c’è. Diversamente è intrattenimento culturale e passa allo “stato gassoso” come dice il filosofo francese Yves Michaud, secondo cui l’arte contemporanea si caratterizzerebbe per i “giochi di linguaggio” che la muovono, per una specie di pluralismo estetico generalizzato. Se intendiamo per opera qualsiasi “accadimento” nel mondo aleatorio dell’arte, allora, credo che non ogni “opera” sia un evento. Perché non ogni accadimento - fenomeno artistico - è un evento temporale, ma spesso pubblicitario. Spesso musei, importanti gallerie private, manifestazioni artistiche non sono altro che ratificazioni ufficiali della contemporaneità in funzione del mercato di certi accadimenti artistici. D’altra parte hanno le loro buone ragioni: devono pur vendere qualcosa.

FG - Non mi è molto chiaro. Se ho capito bene a partire dall’evento tu stabilisci una profonda cesura fra arte e non arte. E’ così? Ma è ancora possibile determinare questo confine oggi? Non rischi di assecondare una posizione idealista e modernista dell’arte?

MF - E’ proprio perché oggi è impossibile stabilire cosa debba intendersi per arte che affronto il problema a partire dall’evento. Paradossalmente il concetto di un’arte senza definizione è diventato il punto centrale della proliferazione delle sue definizioni. Ve ne sono tante quante sono le opere. Perché alla fine si ricorre sempre a costrutti linguistici. per definire gruppi di opere. “Posthuman”, “postmoderna”, “postcoloniale”, “postproduction”, New media, ecc.. Al mercato occorre sempre un’identità come equivalente della diversificazione del prodotto. Perché le definizioni in fondo si rivolgono al cliente. Praticamente alle definizioni universalistiche si sono sostituite le definizioni pluralistiche, ma la definizione come tale resta. D’altra parte le definizioni fanno risparmiare lavoro, e questo aspetto come già un secolo fa notò Max Weber, è il tratto burocratico della società capitalistica. Ogni definizione è un atto burocratico. L’atto del definire lavora sotto sotto per l’intero, per una concezione apparentemente pluralistica, ma concretamente, in termini di mercato, organica. Si tratta di capire quale arte si presta alla definizione e quale no. La questione è aperta.

giovedì 30 aprile 2009

ÉMILE ZOLA: Presentazione a Firenze, giovedì 7 maggio 2009

Melbookstore Seeber
Via de' Cerretani 16r
Firenze

Giovedì 7 maggio 2009, ore 18,00

Giuseppe Panella presenta il suo libro
EMILE ZOLA. SCRITTORE SPERIMENTALE

Ne parlano Enza Biagini e Carlo Bordoni



Giuseppe Panella
EMILE ZOLA. SCRITTORE SPERIMENTALE
Collana "Micromegas"
Edizioni Solfanelli, Chieti 2008
[ISBN-978-88-89756-51-5]
pp. 120, € 9,00

venerdì 24 aprile 2009

DA ZOLA A CÉLINE, LA MODERNITÀ CHE SI ROVESCIA di Marco Iacona (Il Secolo d'Italia, 24/04/2009)

Un saggio di Giuseppe Panella sul ruolo storico e il destino del romanzo tra ’800 e ’900: tra il realismo e il disincanto

Che cosa si inventa il romanziere? Nulla perché il suo è (anzi dev’essere) un percorso di conoscenza compiuto all’interno dei luoghi, delle esperienze e soprattutto del volere concreto, materiale degli uomini. Attraverso questa materialità (questa competenza materiale), egli poi risalirà agli effetti per così dire morali, psicologici delle azioni, e ciò soprattutto attraverso l’analisi della componente ereditaria, «scientifica» del comportamento umano. A pensarla così, com’è noto, era il grande scrittore francese. Émile Zola (Parigi, 1840-1902), padre del naturalismo e del cosiddetto romanzo sperimentale, al quale Giuseppe Panella ha appena dedicato un saggio edito da Solfanelli dal titolo Émile Zola. Scrittore sperimentale (pp. 120, euro 9.00).
In cosa consiste questo romanzo o metodo sperimentale? Semplice: «Il vero scienziato», scrive il medico Claude Bernard al quale Zola, ex fattorino della Hachette, aveva accostato la propria “teoria” «è colui che dubita di se stesso e delle proprie interpretazioni ma crede nella scienza e ammette che anche nelle scienze sperimentali esistono un criterio o un principio scientifico assoluti. Questo principio è il determinismo dei fenomeni: esso … ha valore assoluto sia nelle manifestazioni degli organismi viventi che in quelle dei corpi bruti».
Da un lato, dunque, lo scrittore si trova vincolato a leggi necessarie ma dall’altro si muove all’interno di una infinita varietà di casi e situazioni naturali che costituiscono la base per la sua attività di indagatore. Lo scienziato è un uomo perennemente libero, libero nell’osservare e libero (anche) nel giudicare se stesso ed i propri risultati. «È partito dal dubbio per arrivare alla conoscenza assoluta e non cessa di dubitare se non quando il meccanismo della passione, da lui smontato e rimontato, funziona secondo le leggi stabilite dalla natura». Siamo in presenza di una scrittura come riproduzione e non come immaginazione o al più come intuizione regolata da leggi necessarie, come studio di legami reali, naturali, necessitanti; stabiliti da una natura chiusa alla fantasia ma ricchissima di quotidiane curiosità, da osservare e descrivere con esuberanza di particolari. Scrittura antifilosofica, antimetafisica e ovviamente affatto razionale.
D’altra parte è noto come certo “realismo” letterario e come certa critica anti-borghese, abbiano partorito numerosissimi filoni “maledetti” fondamentali nella poetica di primo Novecento e oltre. All’interno delle descrizioni zolaiane e di quelle – puntuali – di un Panella che predilige il Zola romanziere a quello più propriamente politico o sociologico (e certo, forse stranamente, più conosciuto), la questione si tinge così d’un interesse per così dire parallelo.
Le ultime pagine del libro ospitano un intervento di Louis-Ferdinand Céline datato 1 ottobre 1933 (non inedito ma ugualmente poco conosciuto), scritto in onore dell’autore parigino. Il padre del Viaggio al termine della notte, in quel periodo uscito da poco più di un anno, non ha voglia di celebrare il proprio connazionale, a spingerlo pare ci sia un interesse (un’opportunità…) quasi esclusivamente di tipo professionale. Tuttavia gli accenti del dottor Auguste Destouches (questo il vero nome di Céline), sono doppiamente interessanti. Valgono per se stessi (dunque come documento) e come materia per un approfondimento storico in parte ancora di là da venire. È inutile dire che il 1933 è un anno fondamentale per l’Europa intera…
Peraltro Panella è bravo nel cogliere nella frasi céliniane il filo rosso di una tormentata poetica capace di lambire estremità piuttosto lontane del mondo moderno: «… il testo cèliniano dedicato alla poetica naturalistica di Zola è pieno di straordinarie intuizioni ermeneutiche che illuminano sulle differenze tra i due scrittori ma anche sulla loro fede comune in un linguaggio letterario capace di rendere conto di quell’Orrore che costituisce ormai la sostanza del mondo moderno e al quale la scrittura che vuole darne relazione in maniera adeguata non è più in grado di sfuggire se non attraversandolo fino in fondo».
Mezzo secolo è passato dalle teorizzazioni zolaiane a quegli anni Trenta dove «il dubbio sta scomparendo da questo mondo», nei quali la modernità dell’acciaio ha celebrato se stessa e si appresta a raccogliere altre sfide rovinose. Non c’è più spazio per ottimismi da belle époque, tutto è diventato più potente e pericoloso, perfino le divinità scrive Céline; e non c’è modo per pensare in positivo perché si maledice con la parola quel che invece si accoglie nei fatti. Il nulla imperversa e con esso uno strano istinto di morte, conclude l’autore di Morte a credito. Saranno profezie su profezie: meno di dieci anni dopo sarà ancora quest’ultima (la morte) ad avere la meglio sulla grande parentesi storica europea che aveva posto sugli altari i presupposti materiali del mondo moderno. Come nella, e più della, seconda metà degli anni Dieci, all’inizio degli anni Quaranta la realtà della vita sarà annientata dalla più atroce realtà della morte.

Marco Iacona

Il Secolo d'Italia, 24/04/2009, p. 8-9