giovedì 1 ottobre 2009

Novità: IL FOLLE E LA SOCIETÀ

Pochissimi filosofi come Michel Foucault hanno visto nel folle non un malato mentale, quanto il depositario di una differente accezione del senso e della libertà, titolato ad autodeterminarsi nella propria originarietà.
Tuttavia sino a che punto, nei fatti, questa meritoria posizione accredita al pazzo un’inviolata autonomia e piuttosto non lo rinserra in un isolamento dalla compagine sociale e dai suoi scambi, che in buona parte prevedono norme da condividere e ordini a cui conformarsi?
Nel ripercorrere lo sfaccettato confronto del 1971 tra Foucault e il linguista Noam Chomsky, per il quale la pazzia è un’alterazione della natura mentale anzitutto da curare e da assistere, il presente volume perviene all’esigenza pratica di una sintesi delle due visioni: trattare il pazzo non soltanto come un paziente, ma pure come un’occasione per la cosiddetta normalità d’interrogarsi sui luoghi comuni del proprio “benessere”, contestualmente evitando però che la differenza del folle sia esasperata in una diversità che non si aiuta – anche mediante la terapia – a entrare in dialogo con la maggioranza sociale.

Gianluca Corrado, nato a Viareggio nel 1968, è laureato in filosofia. Membro del comitato di redazione della rivista “La questione Romantica”, lavora nell’editoria e si occupa di pensiero psicotico presso Servizi Ascot di Firenze e l’associazione ALI – Autonomia Lavoro Integrazione.
Per volumi collettanei e riviste ha scritto saggi di ermeneutica e di estetica. Con Solfanelli, nel 2008, ha pubblicato La follia in scena.


Gianluca Corrado
IL FOLLE E LA SOCIETÀ
Il dibattito tra Foucault e Chomsky
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-65-2]
Pagg. 136 - € 9,00

http://www.edizionisolfanelli.it/ilfolleelasocieta.htm

venerdì 7 agosto 2009

PERCORSI TRA ARTE E CINEMA IN ITALIA

Le avventure delle immagini
Percorsi tra arte e cinema in Italia
di Francesco Galluzzi
ed. Solfanelli, pagg.117, 2009
Recensione di Ninni Radicini in
http://www.tuttoitalia.ch/tuttoitalia/news.asp?IDNotizia=11745

lunedì 6 luglio 2009

LE AVVENTURE DELLE IMMAGINI: recensione di Ninni Radicini

L'immagine del mondo classico nella cinematografia italiana ha caratterizzato la produzione e il dibattito critico fin dall'inizio dell'industria della riproducibilità delle immagini in movimento, sulla scia delle novità apportate dalle avanguardie nelle arti visive tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento e della rilevanza assunta nello stesso periodo dall'archeologia come ricerca delle origini e riappropriazione della Storia, in funzione della formazione della identità nazionale. L'ambientazione greco-romana è stata una delle prime ad essere utilizzata: nel 1898 Georges Melies girava Pygmalion et Galathèe. Come dimostrato da Cabiria (regia di Giovanni Pastrone, 1914) - primo kolossal italiano a cui collaborarono anche D'Annunzio e Salgari -, le ricostruzioni storiche furono soggette a due forze non sempre convergenti: l'accuratezza filologica e la spettacolarizzazione della messinscena.
La questione del rapporto tra realtà storica e trasposizione cinematografica non fu però circoscritta alle produzioni italiane e ancora nel 1927 la rivista inglese "Close up" pubblicava un articolo di Hilda Doolittle, a sostegno di una linea di essenzialità, di "purezza", in alternativa allo stile di Griffith e DeMille. All'inizio non tutte le avanguardie artistiche credettero alle potenzialità del nuovo mezzo di comunicazione. Tra gli scettici, a sorpresa, vi erano i futuristi, seppure si trattò di una circostanza di brevissima durata. Virgilio Marchi, architetto proveniente dal movimento ideato da Marinetti, diventò uno dei più grandi scenografi del cinema italiano (es. La corona di ferro) e la partecipazione degli artisti fu tale da determinare la nascita di un genere "futurista", uno dei tre su cui si resse la produzione italiana dei primi due decenni del Novecento: il terzo in ordine di rilevanza, dopo quello storico e quello realista.
La partecipazione di pittori, architetti, scultori al lavoro di registi, sceneggiatori, attori, a cominciare da quelli estranei alle avanguardie, fu determinante per lo sviluppo della cinematografia, poiché al di là di ogni dibattito teorico intesero il cinema come occasione di applicazione della propria creatività. A metà degli anni Venti l'insuccesso di Gli ultimi giorni di Pompei di Carmine Gallone e Amleto Palermi determina una crisi del genere storico-archeologico. Un decennio, Gallone lo riprende dirigendo Scipione l'Africano, premiato poi al Festival del Cinema di Venezia del 1937. Nella rappresentazione imperiale di colui che sconfisse Annibale, l'accuratezza nella ricostruzione dell'antica Roma è accompagnata dall'anacronismo dei titoli di testa, che scorrono sui "rilievi traianei" con chiari intenti propagandistici.
Nel 1947, un nuovo tentativo fu compiuto da Alessandro Blasetti con Fabiola. Nella narrazione della vicenda della conversione al cristianesimo della patrizia romana, il regista utilizzò sia i parametri già consolidati nei decenni precedenti per gli ambienti romani, sia quelli del neorealismo per le parti relative alla comunità cristiana. La ripresa avvenne nel decennio seguente sulla scia del successo popolare delle produzioni americane girate in Italia (Cleopatra, Ben Hur) e italo-americane (Ulisse di Mario Camerini, con Kirk Douglas). Cinecittà diventa la "Hollywood sul Tevere" ma soprattutto la conseguente disponibilità di costumi e scenografie invoglia i produttori italiani a utilizzare in modo pragmatico e geniale questa congiuntura. Fu l'inizio di un nuovo genere - il peplum - che riprendeva alcune delle caratteristiche di quello d'inizio secolo (es. la narrazione) ma si dimostrò innovativo in virtù della provenienza culturale e professionale dei nuovi registi.
Molti dei loro, oggi considerati autori di culto su scala internazionale, provenivano da esperienze nell'ambito delle arti visive e della fotografia, da cui una caratterizzazione di questa nuova era del film storico-mitologico non tanto per la plausibilità della ricostruzione storica quanto per le elaborazioni visive innovative, derivate dalla letteratura e dalle nuove correnti artistiche. A parte qualche esempio di ricerca di verosimiglianza storica (es. Ercole alla conquista di Atlantide, regia di Vittorio Cottafavi, 1961), già la prima pellicola peplum, Le fatiche di Ercole (1958, regia di Pietro Francisci) reinterpreta la Grecia classica, attraverso Hölderlin, Nietzsche, e il rapporto freudiano tra mitologia e psiche.
Nel celeberrimo Maciste all'Inferno (1962), il regista Riccardo Freda ambienta la trama nella Scozia del XVII secolo, facendo scendere il protagonista negli abissi terrestri per combattere contro figure rievocanti la mitologica greca in scenari tipici della pittura di Bosch. Mario Bava in Ercole al centro della Terra (1961) utilizza effetti psichedelici. Questi però non sono anacronismi né tantomeno errori; sono invece contaminazioni storico-culturali finalizzate alla realizzazione di un prodotto in linea con le nuove istanze artistiche della società dei consumi degli anni Sessanta e dell'affermazione dei nuovi mass media, prima tra tutti la televisione.
Negli anni tra l'Ottocento e il Novecento le arti plastiche attraversano una ridefinizione profonda e l'avvento del cinema avvia un rapporto paritario che farà evolvere entrambi, ancora più di avvenuto con l'invenzione della fotografia. Alcuni artisti, tra cui Kandinsky e Malevic, ipotizzarono la realizzazione di film e Kahnweiler prevedeva una evoluzione del Cubismo nel cinema di animazione. Intanto in tema di utilizzo del cinema come mezzo di comunicazione per costruire e rafforzare l'identità nazionale, dopo il genere storico-archeologico, che richiamava i fasti imperiali romani, si afferma una nuova linea narrativa incentrata sul periodo del Risorgimento, allora anche culturalmente più vicino: il conteso storico, la letteratura e la pittura dell'Ottocento. A volte con articolazioni sorprendenti.
In Malombra (1942), Mario Soldati fa riferimento al dipinto Isola dei morti di Böcklin e in 1860 Alessandro Blasetti - il film è del 1934 - utilizza il dialetto in modo non folkloristico, marcandone in modo pressoché esplicito l'essere elemento fondante della cultura popolare italiana. La convergenza tra il realismo nella pittura e nella letteratura (in particolare quella di Verga) e il cinema giunge al culmine, ed a una svolta di interpretativa contemporanea, nel 1943 con Ossessione, di Luchino Visconti. Nello stesso periodo si sosteneva l'opportunità che gli artisti partecipassero in modo diretto alla realizzazione dei film. Colui che rappresentò in modo più compiuto questa tendenza - già sperimentata nel cinema francese degli anni 30 - fu Renato Guttuso, i cui dipinti di ambientazione popolare, meridionale, contadina, apparivano come riferimento ideale per il primo nuovo genere cinematografico italiano postbellico: il Neorealismo.
Oltre agli esempi di rappresentazione oggettiva e realistica della società italiana dell'immediato secondo dopoguerra, il Neorealismo produsse anche esempi di interpretazione onirica (Miracolo a Milano, 1951, di Vittorio De Sica) e caricaturale della allora nascente società dei consumi di massa (Lo sceicco bianco, 1952, di Federico Fellini). Nel 1954 sarà ancora Luchino Visconti a segnare una ulteriore svolta con Senso, film storico a colori, che recupera il calligrafismo del cinema di rievocazione risorgimentale, da lui stesso consegnato alla storia dopo Ossessione. Ma non si trattò di un ritorno al passato poichè la citazione pittorica e l'impianto letterario furono orientati a una lettura critica, come lo sarà poi Il Gattopardo.
In questo stesso periodo un certo numero di artisti scelgono di entrare in modo diretto nell'ambito cinematografico. I fondatori di Forma 1 frequentano il Centro Sperimentale e uno di loro, Mino Guerrini, diventerà regista, girando varie pellicole tra gli anni '60 e '80. La stessa figura dell'artista diventa caratteristica della società italiana al punto da essere rappresentata in vari film (es. Le amiche, 1955; Roma ore 11, 1952). Nella scelta dei paesaggi in due decenni si passa dalla prevalenza degli scenari periferici (neorealismo) al patrimonio artistico in versione cartolina (neorealismo rosa) all'inquadratura dell'opera arte a sostegno delle scelte stilistiche del regista. Tra coloro che si ritiene abbia ottenuto i migliori risultati nella composizione tra inquadratura dell'opera e sequenza vi fu Michelangelo Antonioni. Intanto negli anni '60 arriva la Pop Art e il rapporto tra arte e cinema cambia ancora. Mario Bava nel 1968 dirige Diabolik, uno dei migliori esempi di applicazione della nuova corrente. Soprattutto, si afferma la televisione che incide in modo definitivo sul modo si costruire l'immagine e di relazionarla con lo spettatore.
Negli anni Trenta, il documentario d'arte comincia ad acquisire un interesse crescente. Aumentano le produzioni e diventa motivo di una significativa riflessione teorica, sia da parte dei registi, sia da degli storici dell'arte. Del documentario artistico già la cinematografia degli anni Trenta e Quaranta (il Formalismo o Calligrafismo) di Mario Soldati, Renato Castellani e Mario Camerini, aveva fatto propri vari parametri. Negli anni Cinquanta a sostegno di questo genere vi fu la convinzione che la macchina da presa fosse un potenziamento dell'occhio e che il film d'arte potesse essere parte del sistema divulgativo e formativo incentrato sul cinema (e sulla televisione) a beneficio del progresso della società italiana.
Sul rapporto tra macchina da presa e opera d'arte le valutazioni differivano. Ad affermarsi fu lo stile di Luciano Emmer in cui l'opera veniva adattata agli standard cinematografici. Non mancarono gli storici dell'arte passati alla regia, come Carlo Ludovico Ragghianti, che tentò di realizzare una sintesi tra il purovisibilismo viennese e la sua formazione crociana, e Roberto Longhi, una delle personalità più influenti nello sviluppo teorico del cinema degli anni '50 e '60.
Francesco Galluzzi, storico e critico d'arte, docente di Estetica all'Accademia di Belle Arti di Palermo e di Arte e cinema alla Scuola di specializzazione di Storia dell'arte dell'Università di Siena, già autore di altri saggi, nei tre capitoli di Le avventure delle immagini, descrive il rapporto tra arti visive e cinema in Italia dai primi del Novecento fino agli anni Sessanta (riferimenti anche a produzioni degli anni Settanta e Ottanta), con modalità appropriate sia a lettori già esperti sia a coloro che volessero approfondire lo studio della storia della cinematografia italiana in anni ritenuti tra i più dinamici e innovativi. Da quel contesto storico e teorico è derivata una produzione tuttora di riferimento per registi e operatori del settore, compresi generi e personaggi riscoperti e rivalutati a partire dagli anni Novanta dalla critica e dagli spettatori.

Ninni Radicini

http://www.ninniradicini.it/libri/arte-cinema-italia.htm

giovedì 25 giugno 2009

RECENSIONE di Renzo Montagnoli a ÉMILE ZOLA

Devo ammettere che risulta assai difficile, o addirittura quasi impossibile, scrivere la recensione di un saggio letterario capace di affrontare la figura di uno scrittore come Emile Zola, fondatore del Naturalismo, corrente letteraria che si ispira, come metodologia, a Claude Bernard, grande medico francese, autore dell’Introduzione alla medicina sperimentale.
Precursori di questa concezione, antitetica del romanticismo e che si basa sul fatto che la psicologia dell’uomo debba essere considerata alla stessa stregua di ogni fenomeno naturale e quindi con la stessa evoluzione di causa ed effetto, furono senza dubbio Balzac e Flaubert, ma Zola fu colui che la sviluppò ai massimi livelli.
Del resto nel Saggio su Il romanzo sperimentale che comprende tutti gli scritti teorici pubblicati da Zola nel 1880, lui stesso definisce il romanzo una conseguenza dell’evoluzione scientifica del secolo; esso è, in una parola, la letteratura della nostra età scientifica, come la letteratura classica e romantica corrispondeva a un’età scolastica e di teologia.
Da qui l’osservazione diretta di esseri umani, dei loro comportamenti, delle loro reazioni, dei loro ambienti, indispensabile per scrivere un romanzo.
E infatti le descrizioni sono improntate al più rigoroso realismo, il che se incontrò notevoli favori, però diede luogo anche a reazioni piuttosto accese negli ambienti più conservatori dell’epoca.
Benché da noi più conosciuto per Teresa Raquin, per Nanà, Germinal e La bestia umana, il grosso della sua produzione va ascritto al Ciclo de I Rougon-Macquart, di cui peraltro fanno parte gli ultimi tre dei succitati romanzi.
Si tratta di una serie di opere (una ventina) in cui l’intima connessione tra i protagonisti del gruppo familiare e sociale ivi descritto rende la loro storia esemplare, anzi la vera storia narrata del Secondo Impero Bonapartista.
E qui l’adesione al modello di scienza sperimentale teorizzato da Bernard trova la più completa delle applicazioni nelle azioni, nelle passioni, nei comportamenti dei componenti di questa stirpe, all’origine dei quali vi è un’accertata lesione organica, cioè secondo la moderna terminologia ci sono elementi del codice genetico che finiscono con il condizionare i discendenti, segnandone in pratica l’esistenza.
Con questi presupposti e con lo spietato realismo che induce lo scrittore a osservare con la massima attenzione il comportamento di soggetti reali analoghi ai personaggi della vicenda, è evidente che lo spazio per la creatività si riduce alquanto, finendo con il costituire solo l’ossatura del racconto, il fil rouge intorno al quale gira tutta la storia.
Questo saggio, peraltro facilmente accessibile come esposizione, presenta l’indubbio vantaggio di parlare, in modo coordinato e razionale, di questa continua sperimentazione di Zola, riportando anche brevi brani di alcuni romanzi, giusto per chiarire ulteriormente i concetti.
Quindi sono dell’idea che possa costituire uno strumento indispensabile per lo studioso dell’autore francese e anche una fonte di conoscenza per chi voglia comprendere un periodo storico e una corrente letteraria di rilievo quale fu il Naturalismo.
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=5325

venerdì 5 giugno 2009

LA DISMISURA IMMAGINATA: recensione di Renzo Montagnoli

Per molti è uno sconosciuto, ma è il destino di quasi tutti i precursori e a buon diritto Ernst Theodor Amadeus Hoffmann lo è stato.
Questo geniale ed eclettico tedesco (Konigsberg, 24 gennaio 1776 – Berlino, 25 giugno 1822), oltre a essere stato pittore, compositore, giurista, fu anche uno scrittore, anzi uno dei massimi esponenti di quel movimento artistico, culturale e letterario conosciuto come Sturm und Drang e più universalmente noto, dopo la sua diffusione in tutta l’Europa, come Romanticismo.
La sua visione della realtà finiva letterariamente per essere trasfigurata, in una sorta di esperienza onirica, che finiva con il dar vita, di volta, a prose surreali, fantastiche o grottesche, non di rado in una sovrapposizione di grande effetto.
Vissuto a cavallo di due secoli, in cui storicamente prima avveniva il grande evento della rivoluzione francese e poi la fase grottesca della restaurazione, un’epoca in cui i fondamenti dell’illuminismo finivano con lo sgretolarsi di fronte all’avanzata dell’industrialismo, in questi passaggi Hoffmann riuscì meglio a interpretare l’angoscia, i timori, le speranze di un uomo del suo tempo.
Specchio di se stesso, le sue opere, avveniristiche per l’epoca, finiscono con il tratteggiare una condizione umana dove mistero, realtà e irrealtà, timori latenti e fughe del pensiero si intrecciano, dando vita a spunti che poi saranno ripresi da autori successivi.
Carlo Bordoni, lui stesso autore di narrativa fantastica (il recente Il cuoco di Mussolini, una raffinata e verosimile ucronia), nonché studioso del genere, ha voluto rendere omaggio all’illustre progenitore tedesco con un saggio intitolato La dismisura immaginata – Hoffmann e la letteratura fantastica, un’attenta analisi storico-letteraria della produzione di Hoffmann, con un’interpretazione, condivisibile, di motivazioni, di cause, di effetti e di connessioni del pensiero e dello spirito creativo che giustamente fanno di questo scrittore, vissuto peraltro brevemente, un capostipite di quel genere, da cui poi tanti hanno attinto con risultati forse anche più esaltanti, un genere che ancor oggi sembra essere fra i preferiti e che in una fase di recessione economica ed etica finisce con l’assumere una rilevanza tutta particolare, raccogliendo pulsioni e timori di un presente nell’ottica del futuro.
Preceduto da un’esauriente presentazione di Romolo Runcini il saggio di Bordoni ha il pregio, per niente trascurabile, di offrire una visione completa, perfino sotto il punto di vista psicologico, in poche pagine e, quel che più conta, in modo accessibile anche a chi per la prima volta si accosta alle origini del fantastico.

Renzo Montagnoli
http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=5223

lunedì 1 giugno 2009

The time is out of joint (Exibart.onpaper n. 57 - giugno-luglio 2009)

Apriamo con la nota citazione shakespeariana poiché, nella sua eco degli Spettri di Marx di Jacques Derrida, inquadra il densissimo lavoro di Marcello Faletra. Punteggiato da puntuali e colti riferimenti alla cultura “filosofica” francese del secondo dopoguerra, il breve saggio riflette sulle Dissonanze del tempo, fornendo al lettore una messe e una massa di Elementi di archeologia - qui il rimando è naturalmente a Foucault - dell’arte contemporanea, come recita il sottotitolo.
Ciò non significa che si tratti d’un libro scritto da un epigono della cultura post-strutturalista. E lo dovrebbe dimostrare, almeno in forma di segnalazione, l’epigrafe posta in apertura, che è firmata T.S. Eliot e si conclude in tal modo: “Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile ”. Nulla di più distante da quanto un Derrida sosteneva, criticando quella “metafisica della presenza” che abiterebbe come un fantasma la filosofia, da qualche secolo a questa parte.
E tuttavia, Faletra non pare proprio ricascare in questo sostanziale vizio di forma. Al contrario, riesce a restare in equilibrio su quel filo sottilissimo che divide (e unisce) denuncia e reazione, filosofia della storia e messianismo, disillusione e sconforto. Più che una terza via, un ammirevole esercizio di funambolismo. Certo, a volerne decostruire rigorosamente il testo e le tesi, qualche falla la si potrebbe trovare. E non solo da un punto di vista eminentemente filosofico, ma pure - per esempio - da quello della critica d’arte, sostenendo magari che gli esempi citati sono pochi e, in qualche caso, non pienamente confacenti all’ipotesi che dovrebbero incarnare.
Il punto è però un altro, ed è un punto di tale fissa inaggirabilità che fa presto dimenticare - qualora si sia in buona fede - le accademiche questioni di lana caprina. Il punto è la confusione fra contemporaneità e cronologia, che Faletra denuncia sin dalla prima pagina. E che, lo ripetiamo, non è solo una questione di filosofia della storia o di storia dell’arte, ma nientemeno che d’“imperialismo culturale ”. In altre parole, non esiste un solo tempo, e perciò non esiste una sola attualità: “Non tutti viviamo nello stesso presente”. E ciò vale ovviamente per il singolo nel rapporto a sé e agli altri e alla società in cui vive; ma soprattutto vale in una logica “comparativa” in senso geografico. È la policronia.
Faletra non fa però opera di caritatevole sensibilizzazione verso le culture altre. Fa ben di più: ricorda, sottolinea, ribadisce - con Nietzsche e Didi-Huberman - che “non c’è cronologia senza anacronismo. In un certo senso l’anacronismo è il rimosso della cronologia”. ttenzione però, non si tratta di un anacronismo inamovibile dalle proprie posizioni: “Separandosi violentemente dalla storia, l’arte della ‘contemporaneità’ si trova a svolgere un ruolo anamnesico. E dal momento che tale separazione dalla storia è irreversibile, l’anamnesi si fa interminabile ”.
Qui sorge il problema. Poiché la postmodernità pare aver sussunto (o poter rapidamente sussumere) ogni forma di straniamento, e dunque pure l’arte, e soprattutto la sua fruizione istantanea (con tutto ciò che il termine ‘istante’ significa nella filosofia della storia di Walter Benjamin, altro riferimento basilare nel libro).
È l’ennesima fine dell’arte di hegeliana memoria? In molti sono tentati di crederlo, magari auspicando che il presunto timore si riveli reale. Ma si deve pur sempre tenere a mente la freudiana interminabilità che si citava poche righe fa; in sostanza, “la fine dell’arte non smette di finire, ma ricomincia sempre”. La domanda è dunque un’altra: il fatto che l’arte sia in-finita è un augurio o una minaccia?

info.
Marcello Faletra - Dissonanze del tempo
Solfanelli, *** 2009
Pagg. 88, 8 euro
ISBN 9788889756553
Info: http://www.edizionisolfanelli.it/

giovedì 21 maggio 2009

DISSONANZE DEL TEMPO; FALETRA AL GOETHE SI INTERROGA SULL' ARTE CONTEMPORANEA



ALLE 18 al Goethe Institut, ai Cantieri della Zisa di via Paolo Gili, si presenta il libro di Marcello Faletra "Le dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell' arte contemporanea", edizioni Solfanelli, 2009, collana Micromegas. Introduce il critico d' arte Sergio Troisi. Seguirà una performance live di Curva Minore a cura di Lelio Giannetto.
Il tema è quello della definizione e rappresentazione dell' arte contemporanea e cerca di rispondere a una domanda: siamo contemporanei dell' immaginario o del reale? Il saggio indaga, archeologicamente, le ambiguità della parola contemporaneo che emergono nei rapporti fra arte, storia e società.
L' autore si chiede di cosa sarebbe contemporanea l' arte? «La dissonanza del tempo - l' anacronismo implicito nella nozione di contemporaneità - costituisce il controtempo di tutta la modernità. Ci sono molti modi di rappresentare il presente. Resta tuttavia significativo il fatto che non tutti vivono lo stesso presente».



lunedì 11 maggio 2009

Presentazione di DISSONANZE DEL TEMPO (Palermo, 31 maggio)

Siamo contemporanei dell’immaginario o del reale? Ci sono molti modi di rappresentare il presente. Resta tuttavia significativo il fatto che non tutti vivono lo stesso presente. Il saggio indaga, archeologicamente, le ambiguità della parola contemporaneo che emergono nei rapporti fra arte, storia e società.


Presentazione del libro

Dissonanze del tempo
Elementi di archeologia dell’arte contemporanea

di Marcello Faletra
Introduzione di Sergio Troisi


21 maggio 2009 - ore 18,00
Goethe-Institut Palermo - Sala Wenders
Cantieri Culturali alla Zisa
via Paolo Gili 4 - Palermo

lunedì 4 maggio 2009

Quale presente mette in gioco l'arte contemporanea? (Arte e Critica n. 101)

Intervista a Marcello Faletra – autore di Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea. Ed. Solfanelli, 2009.
di Francesco Galuzzi (storico dell’arte)


Francesco Galluzzi - Nel tuo libro parli del rapporto fra arte e tempo, anzi nel sottotitolo specifichi che si tratta di un’archeologia dell’arte contemporanea; perché “dissonanze del tempo”?

Marcello Faletra - Con “dissonanze” intendo una determinata circostanza dell’immagine, in cui si coagulano aspetti che difficilmente vengono tradotti nel discorso sull’arte. La dissonanza non è il conflitto in cui uno dice bianco e l’altro nero, piuttosto intendo con questa parola chiave il fatto che pur trovandoci di fronte alla medesima opera non vediamo la stessa cosa. Questo significa in primo luogo che la dissonanza non è l’incomprensione. Circostanza che implica il fatto che due persone non sappiano vicendevolmente quello che dicono. E non è nemmeno il fraintendimento, spesso causato da una terminologia imprecisa. Ma è l’eterogeneità irriducibile delle opere ad un regime di frasi o a un discorso che ne perimetra il significato. E il tempo di un certo presente che si oggettiva nelle opere è una delle condizioni privilegiate dove la dissonanza ha luogo. Perché questo tempo si declina al plurale, e quindi non è assoggettato alla linearità della cronologia. Il saggio prende spunto da questa demarcazione fra cronologia e anacronismo e implicitamente fra monocronia e policronia. Cioè la differenza fra la mera esistenza fattuale delle opere - la loro classificazione in un regime di segni - e la loro affermazione come alterità che inaugura un tempo diverso da quello convenzionale.

FG - Alludi al mercato e al suo potere di stabilire l’ordine del giorno della “contemporaneità”?

MF - Fino a un certo punto. Vi è in effetti una reazione alla logica del mercato, alla moda, all’ufficialità o alla convenzionalità, ma questa reazione non è costitutiva della “dissonanza” di cui parlo. Ciò che ho tentato di indagare si riassume nella domanda: quale presente mettono in gioco le opere? Se paragoniamo cosa intendessero Diderot e Baudelaire per contemporaneità, scopriamo che per il primo essa era legata alla potenza della ragione di far coesistere conoscenza e utilità, mentre per Baudelaire essa era espressione del feticismo della merce, concetto questo che si prolungherà fino ai grandi monumenti pubblici di Cleas Oldenburg, con i suoi Totem, o Rossetti per labbra su trattore cingolato, ecc. Per fare un altro esempio già kandinsky concepiva il presente non più in termini oppositivi – presente vs passato – ma in termini di connessione, di contiguità, e il tratto significativo di questa connessione era rappresentato dalla lettera e. Ma in tutti questi casi ciò che è interessante è il fatto che la contemporaneità è un’invenzione del presente indissociabile dalla volontà con cui lo si immagina. L’uomo moderno per Nietzsche non è colui che va alla scoperta di se stesso, ma colui che inventa se stesso. E questo aspetto non è riducibile ad una mera temporalità cronologica, ma inattuale, intempestiva che sfugge spesso allo sguardo dei “contemporanei”; perchè è come un istante oscuro come lo definì Ernst Bloch.

FG - Come possiamo conoscere questo “istante oscuro”, come tu dici?

MF - Un primo approccio potrebbe essere un attento esame del modo in cui utilizziamo la parola contemporaneo. In che contesto questa parola assume valore. In che modo la significhiamo. Cosa archeologicamente si è inteso e s’intende con questa parola? Per inciso specifico che per archeologia non intendo la tendenza a definire universi di saperi, ma sulla scia di Foucault, solo casi esemplari, particolari che irrompono nel contesto modificandone la fisionomia.

FG – Certo la parola contemporaneo si presta a una infinità di interpretazioni, a volte in conflitto fra loro, ma come avere un approccio estraneo ad un partito preso?

MF - Beh, innanzitutto cercando di capire il ruolo della parola contemporaneo nell’ambito della designazione. Quando diciamo “arte contemporanea” cosa intendiamo dire esattamente? Quando diciamo “questa è arte”, cosa stiamo facendo realmente? E’ chiaro che queste affermazioni fanno ricorso a un referente, a qualcosa che viene designato come arte. L’oggetto designato con il deittico “questa” viene classificato “arte”. Questa operazione risulta indispensabile per individuare quali oggetti o immagini in quel dato momento sono separati dal loro contesto abituale e inseriti in una nuova classificazione. Ora, dal momento che gran parte dell’arte d’oggi si serve di materie, oggetti e immagini già esistenti in altri ambiti che generalmente non sono ritenuti artistici, è evidente che queste non hanno di per sé la capacità di significare. Una sedia di Kosuth o una scopa di Rauschenberg o un giocattolo di Koons di per sé non significano già “arte”. Occorre un passaggio. E questo passaggio ci viene dalla capacità di designare queste cose come oggetti d’arte. Cioè di recuperare il piano cognitivo per comprendere il trasferimento di funzione e di significato. Questa procedura cognitiva esige dunque dei deittici che hanno la funzione di scambiare il significato di una cosa in un’altra. Ora l’espressione “questa è arte”, esplicita o implicita che sia, è proprio uno di questi deittici, come ora, adesso, questo, quella, qui, io, tu, ecc. Questa funzione è importante perché contestualizza lo spettatore nell’ambito di uno spazio-tempo. Non del tempo in cui è localizzata la frase, ma del tempo che l’espressione “questa è arte” segna, e a volte con la sola presenza dell’oggetto, senza il supporto della parola. Nell’ambito di questo problema si possono distinguere designatori rigidi e designatori mobili. I primi sono le date: “l’arte dal 1945 ad oggi”, oppure “l’arte del Novecento”, sono designatori sempre identici che di per sé non stabiliscono e non decidono il significato dell’arte; posto un termine temporale rigido il resto viene inserito all’interno di questa cornice secondo l’appartenenza cronologica. Ma se entriamo all’interno dei processi di significazione vediamo che vi sono designatori mobili o “performativi” come quello che dicevo poco fa e che dipende dall’atto performativo.

FG - E questo è un problema che vale per ogni epoca dell’arte?

MF - No. Perché nel passato l’arte subiva una definizione a priori. Era arte ciò che rientrava entro determinate categorie. Il senso greco della parola arte – techné – era equivalente di abilità. In Omero ha il significato di fabbricare, produrre, costruire. Un fare efficace, adeguato in generale. Platone nel suo Timeo parlerà di technitès (il demiurgo), cio che oggi con un significato molto diverso chiamiamo artigiano. I romani, invece, impiegavano la parola ars, riferita essenzialmente alla qualità. Nel medioevo, nelle prime università, si parlerà di ars al plurale, come arti liberali, perché competono solo a un uomo libero, non soggetto al lavoro. Le arti liberali si chiamano arti perché sono la maniera di far diventare liberi gli esseri umani. Alle arti liberali si oppongono le arti meccaniche (trovare il mezzo per…le macchine sono varianti della leva). E’ soltanto con la società basata sullo scambio mercantile che noi avremo ciò che tutt’ora si chiama “opera”. Un prodotto dell’azione umana. Ma già Balzac osservava che “noi non abbiamo più delle opere, non abbiamo che dei prodotti”. Abilità, qualità, erano condizioni poste dalla trasformazione di una materia in una forma. Ma oggi le cose sono ben diverse. Si potrebbe dire che la materia prima dell’arte sia lo spettacolo. Se questa ipotesi fosse vera, si giustificherebbe il fatto che oggi non conta più saper fare qualcosa, ma saper apparire. Questa è la differenza radicale fra Bill Viola e Jeff Koons. Pur appertenendo alla stessa epoca, tuttavia sono cosi distanti l’uno dall’altro…Il primo cerca di essere “contemporaneo” di un saper fare - l’arte del video - che lo proietta a fianco di un Pontormo o di un Masolino da Panicale. Il secondo invece ratifica la contemporaneità dello spettacolo. Ciò che li divide è dunque la materia dell’arte. Per il primo è la storia, per il secondo è il banale tipico dell’universo disneylandiano.

FG - Da questo punto di vista pensi che ci sia una crisi dell’arte contemporanea?

MF – In un certo senso l’arte è per sua natura sempre espressione di una crisi, se si intende con questa parola un processo che porta da uno stato a un altro. La crisi è l’avventura dell’arte nel senso che è un passaggio al limite dell’immagine. Questo passaggio al limite è il presente puro, non ancora incorniciato nel tempo cronologico. Solo che l’idea di crisi generalmente adottata è quella che ci viene dalla medicina che segna il rapporto fra la vita e la morte. Se per crisi intendiamo quest’ultimo aspetto non credo ad una crisi dell’arte.
Il paradigma medico implica l’idea di fine dell’arte – l’ultimo paragrafo del mio libro parla appunto di “illusione della fine dell’arte”; ma l’idea di crisi se si guarda bene è costitutiva di tutta l’arte della modernità con i suoi continui rivolgimenti, ed è connaturata all’ordine capitalista della nostra società. Prima ancora che con le idee l’arte cambia attraverso le materie che utilizza. Il fatto che molti artisti sono irreggimentati nell’universo del banale non significa che vi sia una crisi dell’arte, come se questa fosse un corpo organico e chiuso. Che nelle manifestazioni artistiche vi si espongono anche delle sciocchezze non significa che vi sia crisi dell’arte, semmai è il sintomo di povertà del curatore o dell’artista…Piuttosto in un universo aleatorio dei valori estetici ciò che è in crisi, nel senso medico, è proprio la definizione dell’arte, condizione questa che già era stata diagnosticata agli inizi degli anni Settanta dal critico americano Harold Rosenberg, parlando di “S-definizione” dell’arte. Dieci anni dopo lo storico dell’arte Hans Belting parlerà di “fine della storia dell’arte”, alludendo alla libertà dell’arte di fronte alle rigide cornici formalistiche e cronologiche.

FG - Nel tuo libro la nozione di presente svolge un ruolo fondamentale; cosa significa costruire un presente nell’arte?

MF – Molte opere del secolo scorso sono interamente coinvolte nel creare un presente. Non alludono a nessuna posterità. Non c’è nulla da aspettare. E dal momento che il presente vive di una certa fragilità occorre affermarlo. La singolarità dell’opera…ma sarebbe più esatta parlare dell’evento, è il suo affermarsi come attualità. Da qualche parte Deleuze ha osservato che l’attuale non è ciò che siamo, ma ciò che diveniamo. E’ in questo divenire che l’arte è un atto di resistenza contro le formule che la riducono a una sterile citazione. Per questo in un certo senso oggi il presente stenta ad affermarsi. Ci sono molti artisti che vanno avanti sulla scorta degli artisti del passato e anche del recente passato. Le avanguardie del Novecento dicevano “noi cominciamo”, mentre molti artisti oggi – non tutti naturalmente - dicono “noi citiamo”. Questo aspetto è ciò che Hans Belting ha chiamato lo “storicismo dell’arte contemporanea”.

FG - Ciò che è in gioco quindi sarebbe il rapporto fra passato e presente e il modo in cui questo rapporto si oggettiva nelle opere?

MF – Anche se esprime la più assoluta individualità, l’arte è pur sempre inscritta in un presente storico, sovracodificato da segni e immagini del passato e dai rumori del presente, ed è impossibile fare a meno di questo aspetto. Quanto presente riusciamo a costruire e quanto ce ne sfugge? Quanto passato lavora sul presente e quanto si è volatilizzato? Il sottotitolo “archeologia del presente”, allude proprio a questo. Come ha ricordato Deleuze in una intervista l’archeologia è sempre al presente. Perchè l’archeologia si situa al margine tra il visibile e l’invisibile. Rende visibile qualcosa, un frammento, un dettaglio significativo, che era stato rimosso o obliato. E’ per questo che essa si coniuga solo al presente. Nietzsche ad esempio rilancia Dioniso e la tragedia greca obliati dall’ideale apollineo. Mallarmé fa del caso non più il disordine ma il molteplice della creazione letteraria…In altre parole la policronia si afferma contro la monocronia. E’ questa l’inattualità di cui parlo nel libro.

FG - In che senso si effettuerebbe questa inattualità in certe opere?

MF - Parto dal presupposto che ogni “opera” – ma oggi possiamo ancora parlare di “opere”? – sia un evento - qualcosa che modifica qualcos’altro: la percezione delle cose. Il problema allora diventa: tutto ciò che vediamo in una manifestazione artistica, in un museo d’arte contemporanea o in qualsiasi altro luogo dove vi si espone dell’“arte”, è davvero un evento? Da questo punto di vista ormai non possiamo non ignorare quanto la parola entertainement sia diventata costitutiva della definizione “culturale” dell’arte. Perché, in effetti, tutto può essere “entertainement”, anche un disastro o un assassinio o un tentativo suicidio, come i suicidi sempre rinviati dell’artista spagnolo Nebreda. E’ in questa logica che vanno lette alcune tra le più clamorose – in quanto ultrapubblicizzate - pseudo trasgressioni dell’arte d’oggi. Detto drasticamente l’arte o c’è o non c’è. Diversamente è intrattenimento culturale e passa allo “stato gassoso” come dice il filosofo francese Yves Michaud, secondo cui l’arte contemporanea si caratterizzerebbe per i “giochi di linguaggio” che la muovono, per una specie di pluralismo estetico generalizzato. Se intendiamo per opera qualsiasi “accadimento” nel mondo aleatorio dell’arte, allora, credo che non ogni “opera” sia un evento. Perché non ogni accadimento - fenomeno artistico - è un evento temporale, ma spesso pubblicitario. Spesso musei, importanti gallerie private, manifestazioni artistiche non sono altro che ratificazioni ufficiali della contemporaneità in funzione del mercato di certi accadimenti artistici. D’altra parte hanno le loro buone ragioni: devono pur vendere qualcosa.

FG - Non mi è molto chiaro. Se ho capito bene a partire dall’evento tu stabilisci una profonda cesura fra arte e non arte. E’ così? Ma è ancora possibile determinare questo confine oggi? Non rischi di assecondare una posizione idealista e modernista dell’arte?

MF - E’ proprio perché oggi è impossibile stabilire cosa debba intendersi per arte che affronto il problema a partire dall’evento. Paradossalmente il concetto di un’arte senza definizione è diventato il punto centrale della proliferazione delle sue definizioni. Ve ne sono tante quante sono le opere. Perché alla fine si ricorre sempre a costrutti linguistici. per definire gruppi di opere. “Posthuman”, “postmoderna”, “postcoloniale”, “postproduction”, New media, ecc.. Al mercato occorre sempre un’identità come equivalente della diversificazione del prodotto. Perché le definizioni in fondo si rivolgono al cliente. Praticamente alle definizioni universalistiche si sono sostituite le definizioni pluralistiche, ma la definizione come tale resta. D’altra parte le definizioni fanno risparmiare lavoro, e questo aspetto come già un secolo fa notò Max Weber, è il tratto burocratico della società capitalistica. Ogni definizione è un atto burocratico. L’atto del definire lavora sotto sotto per l’intero, per una concezione apparentemente pluralistica, ma concretamente, in termini di mercato, organica. Si tratta di capire quale arte si presta alla definizione e quale no. La questione è aperta.

giovedì 30 aprile 2009

ÉMILE ZOLA: Presentazione a Firenze, giovedì 7 maggio 2009

Melbookstore Seeber
Via de' Cerretani 16r
Firenze

Giovedì 7 maggio 2009, ore 18,00

Giuseppe Panella presenta il suo libro
EMILE ZOLA. SCRITTORE SPERIMENTALE

Ne parlano Enza Biagini e Carlo Bordoni



Giuseppe Panella
EMILE ZOLA. SCRITTORE SPERIMENTALE
Collana "Micromegas"
Edizioni Solfanelli, Chieti 2008
[ISBN-978-88-89756-51-5]
pp. 120, € 9,00

venerdì 24 aprile 2009

DA ZOLA A CÉLINE, LA MODERNITÀ CHE SI ROVESCIA di Marco Iacona (Il Secolo d'Italia, 24/04/2009)

Un saggio di Giuseppe Panella sul ruolo storico e il destino del romanzo tra ’800 e ’900: tra il realismo e il disincanto

Che cosa si inventa il romanziere? Nulla perché il suo è (anzi dev’essere) un percorso di conoscenza compiuto all’interno dei luoghi, delle esperienze e soprattutto del volere concreto, materiale degli uomini. Attraverso questa materialità (questa competenza materiale), egli poi risalirà agli effetti per così dire morali, psicologici delle azioni, e ciò soprattutto attraverso l’analisi della componente ereditaria, «scientifica» del comportamento umano. A pensarla così, com’è noto, era il grande scrittore francese. Émile Zola (Parigi, 1840-1902), padre del naturalismo e del cosiddetto romanzo sperimentale, al quale Giuseppe Panella ha appena dedicato un saggio edito da Solfanelli dal titolo Émile Zola. Scrittore sperimentale (pp. 120, euro 9.00).
In cosa consiste questo romanzo o metodo sperimentale? Semplice: «Il vero scienziato», scrive il medico Claude Bernard al quale Zola, ex fattorino della Hachette, aveva accostato la propria “teoria” «è colui che dubita di se stesso e delle proprie interpretazioni ma crede nella scienza e ammette che anche nelle scienze sperimentali esistono un criterio o un principio scientifico assoluti. Questo principio è il determinismo dei fenomeni: esso … ha valore assoluto sia nelle manifestazioni degli organismi viventi che in quelle dei corpi bruti».
Da un lato, dunque, lo scrittore si trova vincolato a leggi necessarie ma dall’altro si muove all’interno di una infinita varietà di casi e situazioni naturali che costituiscono la base per la sua attività di indagatore. Lo scienziato è un uomo perennemente libero, libero nell’osservare e libero (anche) nel giudicare se stesso ed i propri risultati. «È partito dal dubbio per arrivare alla conoscenza assoluta e non cessa di dubitare se non quando il meccanismo della passione, da lui smontato e rimontato, funziona secondo le leggi stabilite dalla natura». Siamo in presenza di una scrittura come riproduzione e non come immaginazione o al più come intuizione regolata da leggi necessarie, come studio di legami reali, naturali, necessitanti; stabiliti da una natura chiusa alla fantasia ma ricchissima di quotidiane curiosità, da osservare e descrivere con esuberanza di particolari. Scrittura antifilosofica, antimetafisica e ovviamente affatto razionale.
D’altra parte è noto come certo “realismo” letterario e come certa critica anti-borghese, abbiano partorito numerosissimi filoni “maledetti” fondamentali nella poetica di primo Novecento e oltre. All’interno delle descrizioni zolaiane e di quelle – puntuali – di un Panella che predilige il Zola romanziere a quello più propriamente politico o sociologico (e certo, forse stranamente, più conosciuto), la questione si tinge così d’un interesse per così dire parallelo.
Le ultime pagine del libro ospitano un intervento di Louis-Ferdinand Céline datato 1 ottobre 1933 (non inedito ma ugualmente poco conosciuto), scritto in onore dell’autore parigino. Il padre del Viaggio al termine della notte, in quel periodo uscito da poco più di un anno, non ha voglia di celebrare il proprio connazionale, a spingerlo pare ci sia un interesse (un’opportunità…) quasi esclusivamente di tipo professionale. Tuttavia gli accenti del dottor Auguste Destouches (questo il vero nome di Céline), sono doppiamente interessanti. Valgono per se stessi (dunque come documento) e come materia per un approfondimento storico in parte ancora di là da venire. È inutile dire che il 1933 è un anno fondamentale per l’Europa intera…
Peraltro Panella è bravo nel cogliere nella frasi céliniane il filo rosso di una tormentata poetica capace di lambire estremità piuttosto lontane del mondo moderno: «… il testo cèliniano dedicato alla poetica naturalistica di Zola è pieno di straordinarie intuizioni ermeneutiche che illuminano sulle differenze tra i due scrittori ma anche sulla loro fede comune in un linguaggio letterario capace di rendere conto di quell’Orrore che costituisce ormai la sostanza del mondo moderno e al quale la scrittura che vuole darne relazione in maniera adeguata non è più in grado di sfuggire se non attraversandolo fino in fondo».
Mezzo secolo è passato dalle teorizzazioni zolaiane a quegli anni Trenta dove «il dubbio sta scomparendo da questo mondo», nei quali la modernità dell’acciaio ha celebrato se stessa e si appresta a raccogliere altre sfide rovinose. Non c’è più spazio per ottimismi da belle époque, tutto è diventato più potente e pericoloso, perfino le divinità scrive Céline; e non c’è modo per pensare in positivo perché si maledice con la parola quel che invece si accoglie nei fatti. Il nulla imperversa e con esso uno strano istinto di morte, conclude l’autore di Morte a credito. Saranno profezie su profezie: meno di dieci anni dopo sarà ancora quest’ultima (la morte) ad avere la meglio sulla grande parentesi storica europea che aveva posto sugli altari i presupposti materiali del mondo moderno. Come nella, e più della, seconda metà degli anni Dieci, all’inizio degli anni Quaranta la realtà della vita sarà annientata dalla più atroce realtà della morte.

Marco Iacona

Il Secolo d'Italia, 24/04/2009, p. 8-9

martedì 31 marzo 2009

Novità LE AVVENTURE DELLE IMMAGINI di Francesco Galluzzi


Tre indagini sui rapporti tra le arti visive e il cinema nel panorama italiano. L’immagine del mondo classico nelle ricostruzioni filmiche da Cabiria al peplum, gli scambi e le collaborazioni tra artisti e registi nel secondo dopoguerra, i caratteri dei documentari d’arte tanto diffusi negli anni Cinquanta, diventano occasioni per considerare affinità e differenze tra due universi delle immagini, coniugando puntualizzazioni filologiche e valutazioni antropologiche complessive. Sondaggi su una “storia” che si comincia ora a scrivere, che diventano anche tentativi di immaginare le metodologie storiche e critiche necessarie per progettare nuovi confini della storia dell’arte.

Francesco Galluzzi, storico e critico d’arte, insegna Estetica all’Accademia di Belle Arti di Palermo, e Arte e cinema alla Scuola di specializzazione di Storia dell’arte dell’Università di Siena. È redattore della rivista “Millepiani” e collabora regolarmente a “Cyberzone”, “Il Ponte”, “Titolo”.
Ha pubblicato tra l’altro Pasolini e la pittura (1994), Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità (2004), Il barocco (2005).
Nel 2007 ha curato la mostra "Il cinema dei pittori. Le arti e il cinema italiano 1940-1980" (Castiglioncello, Castello Pasquini).



Francesco Galluzzi
LE AVVENTURE DELLE IMMAGINI
Percorsi tra arte e cinema in Italia
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-58-4]
Pagg. 120 - € 9,00

http://www.edizionisolfanelli.it/avventuredelleimmagini.htm

venerdì 6 marzo 2009

Dissonanze del Tempo in artapartofculture.org

Che cos’è Dissonanze del tempo? Innanzitutto delinea alcuni percorsi della formazione e dei mutamenti del concetto di contemporaneità. Cosa è contemporaneo in un’opera? Quali criteri, in genere, vengono utilizzati per stabilire la contemporaneità delle opere? Perché l’arte contemporanea è circondata da un alone di incomprensibilità? E’ contemporaneo ciò che si riconosce o ciò che sfugge al riconoscimento? Se la chiave per comprendere un’opera del passato è nel passato stesso, possiamo dire la stessa cosa per un’opera “contemporanea”? La letteratura sull’arte contemporanea si basa in minima parte su aspetti tematici e formalistici, nella maggior parte dei casi sulla cronologia: per alcuni sarebbe “contemporanea” l’arte dopo la seconda guerra mondiale; per altri l’arte del Novecento in generale fino ad oggi; per altri ancora l’arte degli ultimi trent’anni. Se è davvero così qual è, allora, l’estensione del concetto di contemporaneità?
Le Demoiselles d’Avignon di Picasso, per fare un esempio, è diventata un’opera “moderna” solo molto tempo dopo, e così per molte altre opere decisive del Novecento. La stessa cosa si può dire dei ready-made di Duchamp. E’ solo dopo che sono stati eletti a icone della “contemporaneità”. Chi attribuisce titoli di contemporaneità a Duchamp deve almeno essere convinto della forzatura che opera: Duchamp stesso, che si definiva un “anartista”, non avrebbe consentito una cosa del genere. Com’è possibile questa singolare concezione del tempo che solo retroattivamente scopre la “contemporaneità”? La nozione di contemporaneità appare nel panorama storico-critico solo negli ultimi decenni, per tutta la prima metà del secolo scorso si è parlato di avanguardia. Sostanzialmente, il libro, indaga la nozione di contemporaneità da più punti di vista. Montaggio, simultaneità, policronia, anacronismo, non-contemporaneità, tutti termini che ricorrono nei paragrafi tessendo una semantica di tempi al plurale, un arcipelago delle esperienze del presente che si oggettiva nelle opere.
Relativamente alla definizione della nozione di contemporaneità, il saggio, ne mette in luce una delle contraddizioni più evidenti: assumendo il carattere di arbitrarietà che gli è immanente, si arriva a un punto morto: occorrerebbe accordarsi, caso per caso (opera per opera), per attribuirgli un senso univoco. Ironia delle definizioni: ve ne sarebbero tante quante sono le opere. Tuttavia, in pochissimi casi, ciò che è costitutivo della contemporaneità – una certa costruzione del presente – è stato oggetto di indagine. Se provassimo a “decronologizzare” le opere degli ultimi 150 anni, ci troveremmo di fronte a una realtà dell’arte difficile da collocare in una classe di oggetti culturali comunemente definiti moderni o “contemporanei!”. Se provassimo, cioè, per un momento a far nostra l’ipotesi di David Hockney quando afferma: “per me tutta l’arte è contemporanea. Se sono attratto dai graffiti preistorici, questi sono per me contemporanei”, ci troveremmo di fronte a una inedita concezione del tempo che ci proietterebbe in un’ottica anicronica e di simultaneità rispetto al tempo della successione e della cronologia. Il libro prende corpo a partire da questa ipotesi. Dalla concezione della contemporaneità di Diderot che non sopportava l’eccesso di fronzoli del celebre pittore Bouchet (così di moda a quel tempo) a quella di Baudelaire che fa l’elogio del maquillage, anticipando alcune questioni della banalità dell’arte d’oggi, da quella di Benjamin che legge i vuoti di Atget come “inconscio ottico” a quella Ernst Bloch con la sua teoria della non-contemporaneità, fino alla nozione temporale del presente di Lyotard, Badiou, Didi-Huberman, e alle riscritture del passato di Sherry Levine, Vanessa Beecroft, Cindy Sherman, Bill Viola…si delinea un percorso del tempo non ascrivibile alla mera successione cronologica, si delinea un percorso anacronistico dell’arte. Si tratta di indagare a quale regime temporale, effettivamente, le opere appartengono, e implicitamente di leggerle alla luce di una pluralità di tempi. Vi è nell’arte d’oggi un presente mitologizzato – effetti di propaganda, retorica dello scandalo, liturgie celebrative di artisti, ecc – e un presente “anacronistico”, invisibile, che sfugge alla presa dell’effetto pubblicitario: una non-contemporaneità del clichè del contemporaneo.

Il sottotitolo del volume - Elementi di archeologia dell’arte contemporanea – fa riferimento all’atteggiamento che la ricerca assume di fronte alle opere. Se è vero che un’epoca non sopravvive alle forme che la rendono visibile, è altrettanto vero che l’etichetta che si attribuisce a un’opera non sopravvive alle esigenze di classificazione del proprio tempo. Cosa resta di un’opera dopo la sua classificazione storiografica? L’archeologia in effetti tiene conto non dell’universale, ma dell’esemplare – è: cio che resta del tempo, è un pezzo di divenire immobilizzato.
L’anamnesi (del visibile) porta alla luce l’anacronismo delle opere (la resistenza contro la loro funzionalizzazione mercantile) e dunque la loro potenza di conflagrazione nel presente: davanti a un’opera di Bill Viola o di Velasquez, io non sono presente a dei feticci museali o del mercato, ma davanti a un’esperienza del tempo. E questo aspetto non vale solo per le opere. Carl Einstein – teorico e critico delle avanguardie, tra i più significativi del suo tempo – dopo la sua morte (1940) è stato letteralmente rimosso dalla storia dell’arte moderna e contemporanea. Perché? L’archeologia, in qualche modo, rende giustizia a queste figure rimosse escluse dall’elenco della contemporaneità ufficiale. In un mondo dove andare alla svelta è l’indice della “contemporaneità”, l’anamnesi è allora l’alterità di fronte a questo stato di cose. In questa prospettiva l’arte non è fatta per essere veloce (consumare i significati in fretta per mettere in commercio altri segni), secondo il registro della concorrenza commerciale, ma per porre un problema: cos’è il tempo per me? Fedele ad alcune posizioni di Paul Valery sulla concezione dell’atto poetico, questi elementi di archeologia dell’arte contemporanea, sono un piccolo contributo alla concezione dell’opera come atto e non come oggetto. Il primo è nel tempo, il secondo nel commercio dei segni.
Possiamo conoscere il tempo del passato soltanto nella sua permanenza e reminiscenza nel presente. Sappiamo che la storia dell’arte – antica, moderna, contemporanea – è un artefatto gnoseologico. Tuttavia ciò che sappiamo del tempo che si oggettiva nelle opere, solo in minima parte ci proviene da essa. L’arte moderna (e dunque contemporanea) non è solo la favola di una violenta irruzione del nuovo o della sua progressiva “sdefinizione”, divenuti a loro volta feticci del mercato, ma è soprattutto la storia di come le opere hanno cristallizzato, come un minarale, il presente. E’ la storia di un’alterità del tempo. Policronia e monocronia del presente nelle opere sono il filo rosso che gioca come una banda di moebius il movimento della contemporaneità. La colonizzazione postmoderna di una certa concezione del presente, vincolata allo spettacolare e al concorrenziale, pone in modo forte la questione della libertà dell’arte di fronte al tempo: di che cosa sarebbe contemporanea l’arte, dato il suo volto prevalentemente autoreferenziale? Da qui una domanda decisiva: è sufficiente essere in sintonia con l’universo museale, pubblicitario e mediatico per stabilire la contemporaneità di un fenomeno artistico? Qual’è il tempo che resta di questa contemporaneità ufficiale?
In questa prospettiva, l’arte diventa il luogo (e il corpo) di un irriducibile dissidio fra ordine (linguaggio della comunicazione e della mercificazione) e disordine (l’eterogeneità delle sensazioni e delle esperienze temporali).

M. Faletra, Dissonanze nel tempo. elementi di archeologia dell’arte.
ed Solfanelli collana Micromegas, pp. 85, 2008.


http://www.artapartofculture.org/2009/03/06/dissonanze-del-tempo-elementi-di-archeologia-dellarte-contemporanea-di-marcello-faletra/

domenica 1 marzo 2009

DISSONANZE DEL TEMPO di Marcello Faletra

Arte contemporanea? È da vedere. E di cosa sarebbe “contemporanea”? La confusione fra cronologia e la costruzione del presente nell’arte è all’origine di un profondo malinteso.
La dissonanza del tempo — l’anacronismo implicito nella nozione di contemporaneità — costituisce il controtempo di tutta la modernità. Ci sono molti modi di rappresentare il presente. Resta tuttavia significativo il fatto che non tutti vivono lo stesso presente…Più di ogni altra attività umana l’arte registra questi dislivelli temporali del presente, che per la loro complessa natura non sono riducibili ad una visione omogenea, a un clichè. Cosa viene mostrato e cosa viene obliato di una certa esperienza del presente?
Questo saggio indaga, archeologicamente, le ambiguità della parola contemporaneo, cercando di coglierne le trasformazioni, per far luce sugli aspetti inconsueti di come il tempo s’inscrive nelle opere generando nello stesso tempo sia un tratto convenzionale sia un tratto inattuale (nel senso di Nietzsche) della contemporaneità.

Marcello Faletra (1955) è pittore, studioso di arte moderna e contemporanea e di filosofia. Oltre a numerosi saggi pubblicati in riviste specializzate ha curato mostre e seminari sui rapporti fra arte e problemi filosofici del contemporaneo. Insegna Filosofia dell'Immagine e al biennio specialistico in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo all'Accademia di Belle Arti di Palermo. Collabora a diverse riviste specializzate ed è redattore della rivista “Cyberzone”.


Marcello Faletra
DISSONANZE DEL TEMPO
Elementi di archeologia dell’arte contemporanea

Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-89756-55-3]
Pagg. 88 - € 8,00


http://www.edizionisolfanelli.it/dissonanzedeltempo.htm

RECENSIONE di Antonella Santarelli a ÉMILE ZOLA

Ecco il libro che avrei voluto leggere tanto tempo fa, quando, alla scoperta dei romanzi di Emile Zola, cercavo di saper qualcosa in più dell'autore e della sua enorme produzione letteraria. Ai tempi del Liceo, i testi di scuola contenevano appena un accenno su Zola e questo, in anni di forte contestazione, mi rendeva l'autore ancora più affascinante. Ho iniziato per caso a leggere Dietro la facciata e non riuscivo a credere che fosse stato un autore dell'ottocento a scrivere quel romanzo: la piccola borghesia, con i suoi vizi e manie, osservata nella paurosa e meschina quotidianeità.
Ho cercato, da quel momento, di leggere quanti più testi trovavo in circolazione, il secondo è stato Teresa Raquin, poi Nanà e tanti altri e dopo anni li ho riassaporati tutti con maggiore consapevolezza. Ben venga un saggio come quello di Giuseppe Panella: sarà utile e apprezzato da studiosi della letteratura e anche da chi, come semplice lettore, ama Zola, incredibile autore, capace di coniugare il metodo scientifico della sua epoca alla narrativa. Nei suoi romanzi, tutto viene descritto minuziosamente con l'atteggiamento dello studioso di fronte all'oggetto di osservazione: ambienti, contesti, la parabola di una famiglia e dei suoi componenti. Il mondo del proletariato che cerca il riscatto, l'alcolismo, feroce risposta all'abbrutimento causato dalle condizione di vita miserrime, tragedie personali e familiari causate da vili tradimenti e da vizi e annidati come cancri nefasti nell'animo umano. É un'intera società, quella francese che si proietta verso la fine dell'ottocento, a essere sviscerata in tutte le sue componenti: Zola applica con entusiasmo e fervore quanto le scienze naturali avevano consegnato alla nascente sociologia, il metodo dell'osservazione e della spiegazione.
Gli studiosi delle nascenti scienze sociali, non a caso, vissero in Francia nello stesso periodo, recependo l'eredità del Positivismo e l'entusiastica adesione al metodo delle scienze naturali. Emile Durkheim consacrerà, nel 1895, le Regole del Metodo Sociologico, partendo proprio dalla determinazione del concetto di "fatto sociale" da sottoporre all'osservazione e alla verifica.

Antonella Santarelli

http://forummediterraneoforpeace.it.forumfree.net/?t=37279164&view=getlastpost#lastpost

giovedì 4 settembre 2008

Un poeta turco passato in sordina: Nâzim Hikmet

Edito da Solfanelli il testo che unifica tre percorsi intellettuali del '900 facendo emergere i demeriti che hanno caratterizzato la critica italiana


Il saggio che questo mese vi vogliamo proporre è una sorta di atto di riverenza nei confronti di tre scrittori del Novecento che hanno trovato destino comune nei tragici eventi del secolo breve.
Il libro Cantastorie della rivoluzione. Nâzim Hikmet – Joyce Lussu – Velso Mucci (Solfanelli, pp. 64, € 7,00) di Giacomo D’Angelo, pubblicista di Pescara, non ambisce ad aggiungere nulla di nuovo alle conoscenze che già si hanno su questi autori, ma si configura solo come altoparlante per denunciare il silenzio critico che ha avvolto in Italia l’opera del poeta turco Nâzim Hikmet. Silenzio che non è stato condiviso dal pubblico, il quale tuttora si avvicina agli scritti hikmetiani con una maggiore predilezione per le poesie d’amore.
Un libro venduto soprattutto durante la festa di San Valentino in cui, come afferma D’Angelo, vi sono «le vetrine allestite per la circostanza». Ed è proprio sul suddetto libro, edito anche da Mondadori, che l’autore non usa mezzi termini nel definire le parole presenti sulla quarta di copertina come capziose, generiche ed imbarazzanti.
Il pensiero di Hikmet è talmente profondo e letteralmente dilatato da non poter essere relegato in banali parole di circostanza che potrebbero essere indifferentemente usate in qualsiasi situazione letteraria.

Velso Mucci e il poeta turco

Se non fosse stato per la Lussu e per Velso Mucci in Italia non si sarebbe mai sentito parlare di questo scrittore turco. Nonostante in paesi come Germania, Francia e Russia sia stato studiato e si continui tuttora a tradurre ed analizzare i suoi scritti, la critica italiana ha completamente ignorato Hikmet.
Anche in Inghilterra, patria di scrittori come Shakespeare, non ha ottenuto grande riscontro, ma questo essenzialmente perché le sue poesie non sarebbero state sufficientemente radicate nel territorio.
Montale, osservatore costante di poeti italiani e stranieri, non ha mai citato il suo nome così come non lo ha compreso il critico letterario Alfonso Berardinelli, nella sua raccolta di cento poesie dei più grandi poeti del Novecento. Completamente ignorato, e neanche nominato in riviste come Millelibri, Linea D’ombra o citato nei giornali di sinistra, quali il Manifesto, l’Unità o Liberazione che spesso, nella terza pagina, attuano una sorta di ripescaggio dall’oblio per quegli autori che magari rischiano di essere completamente dimenticati dal pubblico.
Velso Mucci presumibilmente conobbe Hikmet durante gli anni trenta, quando Louis Aragon, poeta e saggista, lo propose al pubblico di Francia.
Mucci non conosceva il poeta e per tradurlo successivamente si servì di versioni francesi, inglesi e tedesche. Ma da questo primo incontro rimase particolarmente affascinato.

L’invisibilità di Hikmet: un problema ancora aperto

La citata Lussu fu poetessa e partigiana nata a Firenze. Il suo nome all’anagrafe era Gioconda, ma preferì chiamarsi Joyce e incoerentemente usare il cognome del marito Emilio Lussu.
La Lussu conobbe Hikmet a Stoccolma. Fu proprio da quell’originario incontro, e grazie agli altri che ne seguirono, che iniziò a tradurre le poesie dello scrittore turco. Ed è infatti proprio merito della poetessa se oggi disponiamo di traduzioni, di vari scritti e di una biografia di questo poeta sconosciuto.
L’autore del libro effettua un percorso obbligato, le tappe scandite nel testo lo portano inesorabilmente a far confluire i tre personaggi e ad unificarne per certi aspetti logistici, ma anche per affini ricerche intellettuali, i percorsi letterari di queste personalità.
È infatti solo grazie a Joyce Lussu e a Velso Mucci che oggi è possibile mantenere vivo il ricordo e la poesia di Hikmet. Sono stati loro a donargli quel posto d’onore che ha sempre meritato nella poesia mondiale, ma che a “gomitate” si è dovuto guadagnare in un paese troppo spesso ripiegato su se stesso e che non riesce ad aprirsi al nuovo. Questo può sembrare un problema al giorno d’oggi risolto, frutto di tempi ormai ampiamente passati, ma non è per niente così. In Italia, è triste dirlo, ma si è ancora fermi ad Eugenio Montale (per quanto sublime sia la sua poesia).
I giovani poeti, che probabilmente hanno parecchio talento e una maggiore ovvia preparazione intellettuale rispetto ai loro predecessori, non hanno voce per la critica, se non per una ristretta nicchia di lettori e sono costretti a districarsi nel complesso mondo dell’arte poetica spesso con scarsi risultati e mai potendo vivere di questo.

Roberta Santoro

www.bottegascriptamanent.it, anno II, n. 13, settembre 2008

http://www.bottegascriptamanent.it/?modulo=Articolo&id=372&ricerca=solfanelli

mercoledì 2 luglio 2008

Novità: ÉMILE ZOLA. Scrittore sperimentale

La statura intellettuale e letteraria di Émile Zola (Parigi, 1840-1902) non avrebbe bisogno di particolari presentazioni. Padre della corrente letteraria del Naturalismo e autore di una lunga serie di romanzi (solo il ciclo dedicato alle vicende umane e sociali dei Rougon-Macquart occupa uno scaffale di ben venti volumi), Zola è stato una personalità eminente nelle lettere e nella cultura francese del secondo Ottocento.Tuttavia la sua figura è più nota oggi per l’intransigente partecipazione all’affaire Dreyfus (è celebre il suo articolo “J’accuse!” che riaprì il caso giudiziario relativo all’ufficiale francese accusato ingiustamente di spionaggio) che per il suo contributo alla ridefinizione del romanzo moderno.
L’obiettivo di questo libro è, invece, quello di cercare di illustrarne la poetica per temi scelti attraverso una serie di analisi relative alle sue opere principali per verificarne testualmente l’attualità. In appendice al volume viene pubblicata la traduzione di Omaggio a Zola, il controverso discorso tenuto da Louis-Ferdinand Céline nel 1933 in onore dell’autore di Nanà – in esso emerge una lettura inconsueta e sconvolgente del destino della letteratura venuta dopo il Naturalismo nell’epoca del totalitarismo incombente.
Giuseppe Panella si è laureato in filosofia presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove attualmente insegna. Si è occupato di storia dell’estetica, ha curato la Lettera sugli spettacoli di Jean Jacques Rousseau per Aesthetica (Edizioni di Palermo) e Il paradosso sull’attore di Denis Diderot (La Vita Felice di Milano) e in particolare del concetto di Sublime, Il Sublime e la prosa. Nove proposte di analisi letteraria (Clinamen, Firenze 2005). Più recentemente è passato ad occuparsi di teoria della letteratura e di filosofia del romanzo moderno, ha curato l’edizione del romanzo Jcosameron di Giacomo Casanova (La Vita Felice, Milano 2002) e i volumi monografici: Alberto Arbasino (Cadmo, Firenze 2004), Lo scrittore nel tempo. Friedrich Dürrenmatt e la poetica della responsabilità umana (Solfanelli, Chieti 2005 e Il lascito Foucault (Clinamen, Firenze 2006) in collaborazione con Giovanni Spena. Come poeta, ha pubblicato otto volumi di poesia, tra i quali Il terzo amante di Lucrezia Buti (Polistampa, Firenze 2000) ha vinto il Fiorino d’oro del Premio Firenze dell’anno successivo.

lunedì 2 giugno 2008

RECENSIONE di Gian Paolo Grattarola

Cominciava davvero a farsi vergognosa la limitata reperibilità in Italia di studi critici e di approfondimenti biografici relativi a Nazim Hikmet, il più grande poeta turco del Novecento, uno dei più tradotti al mondo. La fortuna di questo significativo artista ed intellettuale, a lungo recluso nelle carceri turche, eternamente braccato dalle polizie di mezza Europa per la sua lotta contro le tirannie, dipende ancora quasi esclusivamente dalla raccolta di “Poesie d’amore” pubblicata da Mondadori nel 2002 (per la traduzione di Joyce Lussu) e da quella per ragazzi “Il nuvolo innamorato e altre fiabe”, uscita per lo stesso editore l’anno successivo.

Troppo poco, nonostante il continuo riscontro di pubblico per i suoi versi d’amore, data la statura del poeta e la grande testimonianza umana e civile di cui è stato a lungo portatore.

Giacomo D’Angelo, pubblicista e collaboratore di diverse testate giornalistiche, colma ora in parte tale vuoto, dando alle stampe un breve saggio edito dalla Solfanelli Editore, dedicato non solo a Nazim Hikmet, ma anche alla sua biografa Joyce Lussu e a Velso Mucci, poeta, giornalista, scrittore e critico d’arte che negli anni Cinquanta tradusse alcune delle sue poesie.

Il libro da un lato denuncia l’inspiegabile silenzio della critica letteraria e dall’altro, allargandone l’orizzonte biografico, cerca di salvare dall’oblio un poeta che ha incarnato i caratteri fondamentali della letteratura del secolo scorso e può essere ritenuto il fondatore del realismo turco.

Nazim Hikmet occupa tuttora nel nostro paese una presenza quasi sotterranea, trascurata dalla cerchia dei cultori della materia e dai luoghi deputati della cultura ufficiale, indifferenti - a parte qualche rara eccezione - alla sua statura poetica. D’Angelo lamenta il mancato confronto in Italia con I testi segnati dalla forte passione civile e dall’ingualcibile candore della sua fede rivoluzionaria, essendo autore fervidamente apprezzato, per orientamento editoriale, solo da un pubblico di lettori abbacinato dalla linearità quasi discorsiva dei suoi versi d’amore.

La struttura libera, la nudità estetica del suo linguaggio poetico lo hanno a lungo ingiustamente confinato in un ambito marginale, periferico e minoritario. A sottrarlo a quest’aura sfocata prova ora D’Angelo, consegnandoci il ritratto a tutto tondo non solo di un poeta autentico e compiuto, ma anche di un intellettuale militante che, invece di approfittare dell’agio della vita, preferisce sacrificarsi sull’altare dell’ideale. Un ragguardevole esempio di eroe romantico al servizio della poesia, un felice connubio di passione amorosa e di passione politica. Senza tesserne il martirologio, questo saggio ha il merito di rilanciare l’opera del poeta turco legandola al filo indissolubile della sua vita. Al termine del libro, della parabola esistenziale di Nazim Hikmet, segnata dalla lunga detenzione nelle inospitali carceri turche, dall’esilio, dall’ostracismo dei suoi libri in patria, dalla nostalgia della sua terra e prematuramente stroncata da un infarto, restano avvinte nella nostra mente, con marchio indelebile, la generosità dell’uomo e lo stile del poeta.


Gian Paolo Grattarola

http://v3.lankelot.eu/letteratura/d-angelo-giacomo-cantastorie-della-rivoluzione-nazim-hikmet-joyce-lussu-velso-mucci.html

sabato 31 maggio 2008

RECENSIONE di Gian Paolo Grattarola (Mangialibri)

Cominciava davvero a farsi vergognosa la limitata reperibilità in Italia di studi critici e di approfondimenti biografici relativi a Nazim Hikmet, il più grande poeta turco del Novecento, uno dei più tradotti al mondo. La fortuna di questo significativo artista ed intellettuale, a lungo recluso nelle carceri turche, eternamente braccato dalle polizie di mezza Europa per la sua lotta contro le tirannie, dipende ancora quasi esclusivamente dalla raccolta di “Poesie d’amore” pubblicata da Mondadori nel 2002 (per la traduzione di Joyce Lussu) e da quella per ragazzi “Il nuvolo innamorato e altre fiabe”, uscita per lo stesso editore l’anno successivo. Troppo poco, nonostante il continuo riscontro di pubblico per i suoi versi d’amore, data la statura del poeta e la grande testimonianza umana e civile di cui è stato a lungo portatore.
Giacomo D’Angelo, pubblicista e collaboratore di diverse testate giornalistiche, colma ora in parte tale vuoto, dando alle stampe un breve saggio dedicato non solo a Nazim Hikmet, ma anche alla sua biografa Joyce Lussu e a Velso Mucci, poeta, giornalista, scrittore e critico d’arte che negli anni Cinquanta tradusse alcune delle sue poesie.
Il libro da un lato denuncia l’inspiegabile silenzio della critica letteraria e dall’altro, allargandone l’orizzonte biografico, cerca di salvare dall’oblio un poeta che ha incarnato i caratteri fondamentali della letteratura del secolo scorso e può essere ritenuto il fondatore del realismo turco. Nazim Hikmet occupa tuttora nel nostro paese una presenza quasi sotterranea, trascurata dalla cerchia dei cultori della materia e dai luoghi deputati della cultura ufficiale, indifferenti - a parte qualche rara eccezione - alla sua statura poetica. D’Angelo lamenta il mancato confronto in Italia con I testi segnati dalla forte passione civile e dall’ingualcibile candore della sua fede rivoluzionaria, essendo autore fervidamente apprezzato, per orientamento editoriale, solo da un pubblico di lettori abbacinato dalla linearità quasi discorsiva dei suoi versi d’amore. La struttura libera, la nudità estetica del suo linguaggio poetico lo hanno a lungo ingiustamente confinato in un ambito marginale, periferico e minoritario.
A sottrarlo a quest’aura sfocata prova ora D’Angelo, consegnandoci il ritratto a tutto tondo non solo di un poeta autentico e compiuto, ma anche di un intellettuale militante che, invece di approfittare dell’agio della vita, preferisce sacrificarsi sull’altare dell’ideale. Un ragguardevole esempio di eroe romantico al servizio della poesia, un felice connubio di passione amorosa e di passione politica. Senza tesserne il martirologio, questo saggio ha il merito di rilanciare l’opera del poeta turco legandola al filo indissolubile della sua vita.
Al termine del libro, della parabola esistenziale di Nazim Hikmet, segnata dalla lunga detenzione nelle inospitali carceri turche, dall’esilio, dall’ostracismo dei suoi libri in patria, dalla nostalgia della sua terra e prematuramente stroncata da un infarto, restano avvinte nella nostra mente, con marchio indelebile, la generosità dell’uomo e lo stile del poeta.

Gian Paolo Grattarola

http://mangialibri.com/?q=node/2452

giovedì 17 aprile 2008

Recensione di Renzo Montagnoli

Nazim Hikmet è un poeta indubbiamente conosciuto in occidente per le sue stupende liriche d’amore, che ancor oggi mostrano una freschezza e una vitalità veramente sorprendenti.

Quello che meno si conosce di questo grande autore turco è il suo impegno rivoluzionario e la sua arte poetica connessa.

Ha provveduto alla bisogna Giacomo D’Angelo con un breve saggio (64 pagine) intitolato Cantastorie della rivoluzione, con il preciso fine di denunciare il silenzio critico calato in Italia su questo grande artista.

Ha così scritto una biografia dettagliata sulla sua vita avventurosa, sulla sua passione politica che lo costringerà all’esilio nella Russia sovietica, dove morirà per un attacco cardiaco.

In questa sorta di rivisitazione viene evidenziato il carattere politico dell’altra sua poesia, tanto per intenderci quella che da noi è meno nota.

La vicenda storica di Hikmet viene poi collegata a quelle di altri due poeti che ebbero rapporti con lui in qualità di traduttori e che stranamente sembrano essere caduti nell’oblio, Joyce Lussu e Velso Mucci.

E’ una lettura agevole, anche se devo dire che D’Angelo ha calcato un po’ troppo la mano sullo spirito rivoluzionario, quasi a sostenere la tesi che la trascuratezza dei critici e degli editori per la poesia di Hikmet debba dipendere esclusivamente dal suo credo marxista e dalla sua indole sovversiva, circostanza di cui francamente dubito; infatti, non si spiegherebbe allora perché continuino a essere pubblicate le sue splendide liriche d’amore.

D’altra parte il compito dei critici è quello di approfondire quei lavori del passato che abbiano ancora una valenza e francamente quelle poche poesie di impegno politico e rivoluzionario che ho avuto l’opportunità di leggere mi sono sembrate anacronistiche, perfino anomale come forma di protesta, del tutto superate dai tempi e dagli eventi.

Al contrario le sue liriche d’amore restano tuttora valide, vitali, riescono ancora a incantare e a stupire.

Nel complesso, comunque, il saggio ha il particolare pregio di svelarci aspetti della vita e dell’arte di Hikmet senz’altro poco noti e pertanto rappresenta un utile elemento di integrazione cognitiva per chiunque si appresti a esaminare con spirito critico la sua opera poetica.

Renzo Montagnoli

http://www.arteinsieme.net/renzo/index.php?m=31&det=3468

venerdì 4 aprile 2008

L'ARTE NELLA SOCIETÀ: recensione di Andrea Franco

La collana Micromegas delle edizioni Solfanelli raccoglie indubbiamente saggi molto interessanti e quello che ci troviamo qui a recensire è il testo che apre la collana, un libro snello e affascinante che analizza il concetto di arte da diversi punti di vista, includendo all’interno del volume alcuni articoli dell’autore, Franco Ferrarotti, docente di sociologia all’università romana “La Sapienza”.
Il libro si legge molto rapidamente coniugando al meglio sintesi e complessità, dando al lettore uno spaccato molto dotto del concetto di Arte, però riuscendo nell’intento con articoli brevi. Interessanti le numerose citazioni che permettono al lettore più accorto di appuntare diversi nomi per approfondire le ricerche. Il classico saggio che si presta a diversi livelli di lettura. Gli si può dedicare una lettura rapida e superficiale, così come si presta a numerosi approfondimenti e punti di partenza per ricerche su vari aspetti.
L’arte nella società è un testo che approfondisce aspetti non banali, che con difficoltà si affrontano in testi meno tecnici, e per questo si posiziona su un livello alto, e per la qualità della scrittura e per il tema trattato.
Sicuramente la scelta di saggi brevi ma molto specialistici è vincente. Permette di tuffarsi anche in argomenti poco conosciuti senza dover affrontare testi notevolmente più impegnativi. Un buon modo per addentrarsi in una materia che si vuole iniziare a conoscere.

http://v3.operanarrativa.com/node/1142

lunedì 31 marzo 2008

Novità editoriale: CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE

Questo saggio vuole essere un omaggio a tre voci libere che il caso ha fatto incontrare nel turbinio degli eventi tragici del “secolo più terribile della storia occidentale” (Isaiah Berlin). Non ha la pretesa di arricchire di nuovi elementi vicende già appassionatamente narrate da altri (a cominciare da Joyce Lussu per finire con Barbara La Rosa), ma divulgarli in un esercizio di memoria.
Il suo fine è principalmente quello di denunciare il silenzio critico calato in Italia su Nâzim Hikmet, già anticipato anni fa dalla Lussu, nonostante il favore continuo dei lettori, che con straordinaria assiduità acquistano le tante ristampe delle sue liriche d'amore. Ma Hikmet non è l’Ovidio dell’Ars amatoria, né il Catullo di Lesbia, e nemmeno un imitatore del d’Annunzio alcionico se mai lo ha letto. Il suo sentimento dell’amore è talmente esteso alle donne amate, ai figli, alla patria, alla Russia (“paese dei miei sogni”), al popolo turco e alla sua lingua, a tutti i popoli della terra, ai suoi ideali di libertà, da non poter essere circoscritto o rimpicciolito in una parola ambiguamente polivalente.

Giacomo D'Angelo
CANTASTORIE DELLA RIVOLUZIONE
Nâzim Hikmet - Joyce Lussu - Velso Mucci

Edizioni Solfanelli, Chieti 2008
[ISBN-978-88-89756-28-7]
Pagg. 64 - € 7,00

http://www.edizionisolfanelli.it/cantastorie.htm